C’erano le strade da liberare, la neve da spalare ovunque meno che lì, sopra Farindola. Quel resort da dove le coppie amavano postare le foto del paesaggio incantato lo avevano dimenticato tutti. Qualcuno, senza sapere quanto era accaduto una manciata di minuti prima, se la rideva pure: “E insomma, mica deve arrivare a Rigopiano? Perché se dobbiamo liberare la spa, al limite ci andiamo a fare pure il bagno”, scherzavano al telefono un dipendente dell’Anas e un dirigente della Provincia mentre decidevano dove mandare le turbine per spazzare le statali messe a dura prova da giorni e giorni di neve intensa. Anche una funzionaria della prefettura di Pescara, per ben due volte, quando la valanga aveva già sfigurato l’albergo e inghiottito 40 persone, continuava a bollare tutto come un “falso allarme”. Così l’hotel si trasformò in una trappola. L’unico a ripetere che lassù era accaduto davvero qualcosa di grave era Quintinio Marcella, avvertito dall’amico cuoco Giampiero Parete, scampato alla tragedia perché andato a sistemare i bagagli nell’auto proprio mentre la neve si staccava dal monte Siella, travolgendo prima il faggeto e poi l’albergo. Ma nessuno dava credito al suo racconto.
Le vittime e i sopravvissuti – Solo la sera del 18 gennaio, quando la cena è già consumata, Rigopiano inizia a rimbalzare tra tv, siti e social. Nessuno ha idea di quanto sia drammatica la situazione e difficile raggiungere l’hotel. Nessuno può immaginare che lì sotto sono già morti in 29, seppelliti dalla neve venuta giù da quel monte che da anni – come tutti gli altri massicci dell’Abruzzo – aspettava che qualcuno mappasse il rischio valanghe. Mancano una manciata di minuti alle 17 quando la slavina si ingrossa lungo il canalone e sposta l’albergo. Si porta via Claudio e la moglie Sara, Luciano e Silvana, Valentina che faceva l’infermiera al Gemelli di Roma, Sebastiano e la sua Nadia, Jessica e Marco. E poi Pietro, Rosa, Marco, Tobia e Bianca, Marco e Paola. C’è anche Stefano: avevano assicurato a suo papà che si era salvato e invece la sua fidanzata Francesca, due giorni dopo, sarebbe uscita viva per metà dalle macerie. Erano tutti ospiti, da tempo pronti ad andarsene perché la neve iniziava a far paura. Ma nessuno si era arrampicato fino al resort per liberare l’unica via di fuga. Nonostante qualcuno avesse sollecitato l’intervento. Lo fecero alcuni dello staff, pure loro morti: Roberto Del Rosso, il proprietario, il maitre Alessandro, Emanuele, Gabriele, Alessandro e la cuoca Ilaria, 22 anni appena. E ancora Marinella, Cecilia, Linda, Luana e Dame Faye, rifugiato senegalese che a Rigopiano era il tuttofare. Più fortunato è stato il suo collega Fabio, che si trovava all’esterno della struttura al momento della tragedia. Solo dopo 48 ore, scavando tra le macerie, gli uomini della Corpo nazionale soccorso alpino, della Guardia di Finanza e i vigili del fuoco tirano fuori da quella massa informe di neve e detriti Adriana, Francesca, Giorgia, Vincenzo e Giampaolo. “Ci siamo salvati succhiando la neve”, ripetono. Per i piccoli Samuel, rimasto orfano ma l’avrebbe saputo solo molti giorni dopo, Edoardo, Gianfilippo e sua sorella Ludovica il buio era invece stato vinto giocando a biliardo.
I soccorsi – Un’operazione “folle”, la chiama a un anno di distanza Walter Milan, responsabile della comunicazione del Soccorso Alpino. Perché quando la colonna di soccorritori si ritrova davanti un muro di neve che neanche turbine e frese riescono a tagliare in due, i suoi uomini, i finanzieri e un maestro del Cai si guardano negli occhi e in undici decidono di montare le pelli di foca agli sci e proseguire a piedi in mezzo alla tempesta senza una traccia. “I soccorritori dovrebbero prima pensare alla propria incolumità e quel tragitto non era affatto sicuro”, ammette a Ilfattoquotidiano.it. Quando arrivano su e individuano l’hotel è quasi l’alba del 19: sono ormai passate dodici ore dalla valanga e la zona nella quale sorgeva l’albergo è irriconoscibile. “Ci siamo resi conto che era una di quelle situazioni nelle quali non sai davvero come operare”. Gli uomini del Soccorso Alpino affrontano una sessantina di valanghe ogni inverno, ma uno scenario del genere, assicura Milan, non l’avevano mai incontrato: “Non c’è nella memoria del nostro Corpo una situazione come quella di Rigopiano”. Una sfida: “Ci siamo scervellati per risolvere i problemi logistici. Spalavi e la neve scivolava di nuovo nella conca dove avevano costruito l’hotel”, ricorda. Chi riesce a ricevere sms dai soccorritori viene a sapere che la situazione è drammatica e che l’albergo è stato spazzato via. Ci sono tonnellate di neve, alberi sradicati e detriti che hanno sommerso l’area dove si trovava l’albergo. Le macerie restituiscono le prime vittime. “Ma si sentono le voci”, assicurano da su. Per i parenti dei dispersi iniziano lunghe ore di attesa, tra angoscia e speranza. Solo il giorno dopo, il 20 gennaio, vengono recuperati 9 superstiti, tra i quali quattro bambini. Insieme a loro, affiorano anche i corpi senza vita degli altri ospiti.
“Non c’era tempo di festeggiare” – “Per ogni persona estratta, sapevi di poter piangere un morto subito dopo. Non c’erano nulla da festeggiare, solo da lavorare”, aggiunge Milan. Turni massacranti, un piccolo rifugio dove riposarsi e poi riprendere a spalare. Lui, da Penne, aiuta il coordinamento e deve comunicare con le famiglie di chi è seppellito lì sotto. “Non dovevo ingenerare false speranze, ma neanche spegnerle. Eravamo certi che avremmo salvato qualcuno, ce lo ripetevamo – continua Milan – Oggi, a mente fredda, sapendo cosa c’era lassù, stento ancora a crederci”. Invece è accaduto. “Ci addestriamo per questo, lavoriamo per questo. Per salvare vite. Non posso pensare che siano tutti morti”, ripeteva in quei giorni al Fatto.it il maresciallo della Guardia di Finanza, Lorenzo Gagliardi. È tra i soccorritori che hanno messo gli sci ai piedi la notte del 18 per raggiungere l’hotel. Poi torna giù per riposarsi e il 20 riprende a lavorare sul campo, mantenendo la promessa. “Nonostante si trattasse dello scenario più complesso nel quale abbia mai operato”, ribadisce a un anno di distanza Gagliardi, che ha alle spalle i terremoti de L’Aquila, Amatrice e Norcia. “Sapevo che sotto quei tre, quattro metri di neve – dice – c’era qualcuno vivo. A volte basta trovare un rifugio di fortuna: una trave, un tavolo. Si trattava solo di capire quale fosse”. Le indicazioni arrivano da Salzetta, il tuttofare che si era salvato. “Scavate lì, l’ingresso è di là”. Fino a quando i vigili non hanno individuato la strada giusta. Tutti fuori, uno dopo l’altro, in nove. Giampaolo Matrone, l’ultimo sopravvissuto, rimane sotto le valanga per 62 ore. Da quel momento tra le macerie torna il silenzio: restituiranno solo corpi senza vita.
L’inchiesta: 23 indagati – A un anno di distanza, sono 23 le persone indagate dalla procura di Pescara per la vicenda. Quattro i filoni dell’inchiesta che in questi mesi si è concentrata su diverse responsabilità. Quelle di chi si occupò di attivare la macchina dei soccorsi e quelle di chi gestì l’emergenza neve che precedette la slavina. E si sta cercando di ricostruire anche la catena di autorizzazioni per la realizzazione del resort e chi avrebbe dovuto produrre la mai nata carta ‘pericolo valanghe’. Le accuse, a seconda delle posizioni, vanno dall’abuso d’ufficio, al falso, agli abusi edilizi, fino al disastro e all’omicidio colposo. Tra gli indagati, c’è il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, il presidente della Provincia, Antonio di Marco, e il direttore del resort Bruno Di Tommaso. Iscritto anche l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo, che insieme ad altri due ex dirigenti avrebbe attivato in ritardo le procedure indispensabili per liberare in sicurezza l’albergo prima della slavina. Il procuratore capo di Pescara, Massimiliano Serpi, e il pm Andrea Papalia hanno messo sotto inchiesta anche due ex sindaci di Farindola, Antonio De Vico e Massimiliano Giancaterino, e cinque funzionari della Regione Abruzzo responsabili della prevenzione rischi e della ‘carta valanghe’. Solo dopo il disastro, parte in Regione l’iter che ha portato, con lo stanziamento di fondi, alla gara d’appalto per la realizzazione dello studio. In quei giorni in tanti avevano altre urgenze: far arrivare una turbina lì, uno spalaneve di là. Rigopiano poteva aspettare. Anzi, il direttore “non deve rompere i coglioni”, diceva un dirigente della Provincia. Non pareva un’emergenza. E intanto la neve si accumulava, si accumulava. Un metro, due. Milan è tornato su quelle strade in questi giorni per partecipare a una fiaccolata con i parenti delle vittime. Risponde al Fatto.it mentre sta risalendo verso Farindola, lungo quella strada che rallentò i soccorsi. Ha nevicato pochissimo ai piedi del monte Siella, in questi mesi: “Una spolverata nelle scorse ore, giusto qualche centimetro. È tutto irriconoscibile, non sembra neanche di essere qui”.
Twitter: @andtundo