Antonio Torella, 33 anni, dopo un'esperienza nel Regno Unito è tornato in Italia, dove è anche professore a contratto per "600 euro lordi l’anno". Ha raccolto le testimonianze di molti colleghi in giro per il mondo in un libro, dove confronta i sistemi di vari Paesi. "In Italia non fa tutto schifo, qui ho scelto di crescere mio figlio. Ma ai giovani dico: viaggiate"
“Sono fortunato perché faccio uno dei lavori più belli del mondo. Purtroppo, però, lo faccio in un paese che sottovaluta la mia professione”. Antonio Torella, 33enne di San Nicandro Garganico, in provincia di Foggia, nato in Francia ma vissuto fin da piccolo nella provincia pugliese, è uno dei 450mila infermieri che formano la spina dorsale del sistema sanitario italiano. Non solo, è anche professore a contratto all’Università di Bologna, dove si è laureato e dove dal 2008 lavora nel trauma center dell’ospedale. Un percorso soddisfacente. Eppure Antonio dopo qualche anno a contatto con il sistema Italia sente che qualcosa non va. “Nell’immaginario collettivo italiano l’infermiere è quello che assiste il medico, al di là delle varie specializzazioni che ha – spiega -. Negli altri paesi, invece, è la persona che segue la terapia che porta il paziente ad uscire dalle porte dell’ospedale”. Oggi, dopo aver fatto un’esperienza nel Regno Unito che gli ha cambiato la vita, ha raccolto le testimonianze di molti colleghi in giro per il mondo in un libro: Overseas Nurses – Viaggiare attraverso la professione infermieristica. “Un modo per spronare i giovani infermieri a viaggiare e a imparare apprendere, riflettendo anche sulle lacune del sistema Italia rispetto ai nostri vicini”. I diritti d’autore del libro, poi, andranno alla onlus Amici di Ampasilava, che gestisce un ospedale a Vezo di Andavadoaka, nel sud-est del Madagascar.
“Il miglior sistema infermieristico rimane quello dei paesi scandinavi – afferma – sia per la gratuità che per il livello qualitativo dell’offerta e per gli stipendi, anche se quello della lingua rimane uno scoglio”. Negli Stati Uniti invece l’infermiere anestesista è una delle figure più pagate a livello professionale. “Ma è senza dubbio la Spagna il paese più avanti come legislazione in materia”, puntualizza. Qui infatti il percorso di laurea prevede tre anni di teoria e uno di specializzazione: “Questo evita problemi agli studenti – conferma l’infermiere -. A Bologna, ad esempio, mi sono trovato più volte a dover spiegare in reparto a quelli del secondo anno parti di teoria che si fanno al terzo”.
In Francia vige invece un sistema simile a quello italiano, benché il livello salariale sia maggiore (circa 500 euro netti in più al mese). Mentre l’Irlanda, secondo le interviste effettuate dall’infermiere pugliese, è attualmente una delle mete migliori per la categoria dato che sono riconosciute le specializzazione come nel Regno Unito ma è richiesta una conoscenza della lingua meno approfondita. “Ora in Inghilterra c’è bisogno di un C1 per accedere alla professione, ed è difficile perfino per gli inglesi”.
Antonio è sempre stato curioso. Nel 2013 si iscrive ad un corso di lingua inglese a Londra con l’intenzione di fare un’esperienza all’estero. E l’anno successivo viene assunto al Brighton and Sussex University hospital come scrub nurse. “Ho sempre voluto fare l’Erasmus ma dovendo mantenere la borsa di studio non potevo permettermi di perdere esami – ricorda -. All’epoca la mobilità consisteva solo in pochi mesi per la specializzazione”. Oggi conosce perfettamente le difficoltà accademiche, come professore a contratto percepisce 600 euro lordi l’anno e non può neanche firmare l’esame ai suoi studenti perché formalmente il titolare è un medico anestesista.
“In Italia su 450mila infermieri solo 40 sono professori associati. E non è un problema di fondi ma di mentalità”. Ed è al di là della Manica che apre gli occhi: “Prima di partire pensavo che nel mio ospedale a Bologna fosse tutto perfetto: sbagliavo, si può sempre migliorare”. E nel Regno Unito le specializzazioni incidono: “Con dieci anni di esperienza prendevo 1800 sterline (2600 euro) lavorando 4 giorni a settimana 10 e mezza al giorno – racconta -. Riuscivo a pagare sia il mutuo in Italia che l’affitto a Brighton. In Italia percepisco poco più della metà”. Ma quello che lo colpisce di più è il modo di approcciarsi al lavoro: “Ti danno accesso alle banche dati, alle biblioteche, organizzano uscite tra colleghi e ti chiedono costantemente feedback per farti sentire coinvolto”.
L’ultimo campanello d’allarme sulla carenza di infermieri nel Belpaese è stato lanciato dall’Ocse; all’appello mancherebbero 60mila infermieri, mentre i disoccupati sono 15mila. “In Inghilterra applicano un obiettivo di sei pazienti per infermiere – commenta -, qui da noi si arriva perfino ad un rapporto sessanta a uno”. Inoltre gli stipendi vanno dalle 1500 sterline a quasi 10mila e in mezzo c’è un mondo di specializzazioni. “Da noi se hai 25 anni di anzianità puoi aspirare al massimo a 300 euro in più al mese – sottolinea -. Le aziende ospedaliere dovrebbero ripensare in toto l’assistenza infermieristica. In Italia non fa tutto schifo, ed è qui che ho scelto di far crescere mio figlio, ma ai giovani dico: viaggiate, perché solo così potrete contribuire a migliorare questo paese”.