Messo alla sbarra da un tribunale italiano, 80 anni dopo aver promulgato le leggi razziali. Vittorio Emanuele III è stato condannato, con sentenza unanime, a Roma, di fronte a una corte presieduta dall’ex ministro di Giustizia Paola Severino, da Giuseppe Ayala, ex pm nei processi contro la mafia, e da Rosario Spina, membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Un processo destinato a fare la storia, due ore di dibattimento serrato, che hanno portato alla condanna postuma del penultimo monarca di Casa Savoia. La sua colpa? Aver firmato le “Leggi per la difesa della razza”, nel 1938, togliendo qualsiasi diritto ai cittadini italiani di origine ebraica.
A guidare l’accusa, il pm Marco De Paolis, capo della Procura militare di Roma, una vita dedicata a perseguire i criminali nazisti. “Ho ritenuto che fosse importante partecipare, per far luce su questa pagina della nostra storia. E ho preparato un atto d’accusa con il contributo di storici e giuristi, per chiedere un’affermazione di responsabilità” spiega a ilfattoquotidiano.it. Per la prima volta, l’Italia fa i conti con il suo passato e con le responsabilità dietro alla firma delle famigerate leggi razziali, quelle che vietavano agli italiani ebrei di studiare, lavorare, sposarsi liberamente, persino, così furono applicate ad Ostia, di andare al mare.
In aula si sono presentati ex perseguitati e alcuni dei loro discendenti, chiamati a testimoniare. Tra questi, Piera Levi Montalcini, che ha ricordato come la zia, il Premio Nobel Rita Levi Montalcini, dopo le leggi razziali, avesse continuato le sue ricerche sulle cellule, allestendo laboratori artigianali nascosta in camera da letto, cambiando continuamente casa, in fuga da una parte all’altra dell’Italia, passando per il Belgio. Come lei, furono colpiti i Premi Nobel Emilio Segrè e Salvatore Luria, allievi di Giuseppe Levi, anche lui epurato nel 1938, e Renato Dulbecco. Essere ebrei, per loro, significava non potersi presentare in biblioteca, non poter dare esami, né fare ricerca in Italia. In aula anche Anita Garibaldi, che ha rievocato l’epico schiaffo che il padre Ezio, parlamentare e nipote dell’eroe dei due mondi, dette a Farinacci, rifiutandosi di firmare quelle leggi.
Un’aula colma di tensione ha accolto le considerazioni della Corte. Per i giudici, la decisione è stata unanime: il Re è colpevole. E’ la Storia a deciderlo. La sentenza è stata accolta con un lungo applauso. Nel pubblico, anche la Presidente della Camera Laura Boldrini.
Inchini, applausi, altri inchini, altri applausi.
Sipario.
Sì, perché, come è evidente, tutto il processo era uno show, uno spettacolo catartico in ritardo di 80 anni, che ha coinvolto magistrati, storici, giudici, testimoni ed economisti nel ruolo di se stessi, alla ricerca di responsabilità per un esame collettivo di coscienza necessario ed emozionante, riuscito, però, solo a metà. In Processo al Re, diretto da Angelo Bucarelli e andato in scena giovedì sera, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, l’unico imputato, il re, era contumace. Incarnato da Umberto Ambrosoli, avvocato e politico di sinistra, Vittorio Emanuele III tentava di difendersi, senza successo, mentre fuori dal teatro, un’altra parte del Paese, tutt’altro che contumace, condivide ancora le idee da lui siglate con quella firma, ottant’anni fa.
“Doveva esserci un imputato e questo era il re, ma le leggi razziali nacquero da una serie di circostanze di cui erano responsabili professori, politici, gli italiani stessi, che spesso furono delatori dei loro vicini, e la stampa, che non disse niente, nemmeno sui giornali delle opposizioni all’estero. E ci fu una grandissima responsabilità della chiesa cattolica”, spiega a ilfattoquotidiano.it Viviana Kasam, coautrice di Processo al Re insieme a Marilena Francese e ideatrice dell’evento con Noemi Di Segni, presidente dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane. E’ stata la Ucei a volere lo spettacolo, che sarà trasmesso, in parte, su Rai Storia, il 27 gennaio alle 21:15, nel Giorno della Memoria, all’interno di un documentario di Bruna Bertani.