Deve dirigere l’istituto, gestire le (poche) risorse economiche a disposizione, scegliere i docenti (visto che la riforma di Renzi ha deciso così). E, come se non bastasse, adesso gli tocca pure andare in tribunale. L’ultima invenzione della scuola italiana è la nuova figura del “preside-avvocato”: sempre più spesso i dirigenti scolastici sono chiamati dall’amministrazione a presentarsi davanti al giudice per discutere le cause del Ministero. Senza preparazione, senza assistenza, il più delle volte proprio senza competenze perché “non ci si improvvisa esperti di diritto da un giorno all’altro”, come spiega Ezio Delfino, presidente dell’associazione Disal (Dirigenti scuole autonome e libere). E i risultati son quelli che sono.
Il fenomeno è iniziato lentamente da un paio d’anni, di recente le deleghe distribuite dagli uffici si sono fatte più numerose. L’ultima ondata è stata registrata in Sardegna, dove il sindacato Udir è insorto contro quella che il presidente Marcello Pacifico definisce “utilizzazione impropria” dei dipendenti: “I presidi non sono tenuti a vestirsi da avvocati dello Stato”. Eppure è quello che si verifica sempre più spesso in giro per l’Italia. Al dirigente viene recapitata a scuola una letterina dall’Ufficio regionale, in cui riceve la “delega a rappresentare e difendere l’Amministrazione convenuta nel giudizio di primo grado” per il ricorso tal dei tali, “con potere di conciliare o transigere la controversia”. È successo, ad esempio, poche settimane fa alla preside di un istituto tecnico di Sassari. Nella missiva erano indicati anche i nomi di due funzionari dell’ufficio provinciale, “ma io non li ho mai visti né sentiti: ho dovuto vedermela da sola”, racconta la diretta interessata. Come il suo, altri casi si sono verificati in Campania, Lazio, Toscana.
È la legge, del resto, che lo permette. La posizione del Miur è chiara: come spiega la delega, “l’articolo 417 del codice di procedura civile prevede, limitatamente al primo grado di giudizio nelle controversie di lavoro, la possibilità dell’Amministrazione di stare in giudizio avvalendosi direttamente dei propri dipendenti”. E i dirigenti scolastici sono senza dubbio fra questi. Giuridicamente, poi, il preside è equiparato ad un datore di lavoro per quel che riguarda i suoi docenti. E così può capitare che l’avvocatura dello Stato non ritenga di assumere direttamente la causa, e la scarichi sui dirigenti, benché questo genere di mansioni non rientri nelle competenze del contratto nazionale. È una questione di interpretazione delle norme. E di necessità: se ciò succede, è soprattutto per carenza di risorse. L’avvocatura è oberata di lavoro, mentre le sedi periferiche dell’amministrazione (gli ex uffici provinciali), a cui la palla passerebbe in prima istanza, sono state svuotati di personale. Basti dire che l’Usp di Cagliari dieci anni fa contava oltre 200 dipendenti, ora meno di 50. In mancanza di alternative, tocca al preside presentarsi davanti al giudice, e fare l’avvocato.
Certo, sono solo cause di lavoro, ed esclusivamente di primo grado: procedimenti non troppo complessi, che riguardano ad esempio gli orari di servizio, o l’assegnazione delle classi o altri aspetti del contratto. “Ma si tratta pur sempre di una causa giudiziaria, che richiede un minimo di preparazione e porta via molto tempo”, spiega il presidente dell’associazione di categoria, Delfino. Con in più l’obbligo di rappresentare le ragioni dell’amministrazione e schierarsi contro i loro stessi docenti, con cui si ritrovano a lavorare quotidianamente a scuola. “Noi vorremmo essere lasciati liberi di fare il nostro mestiere: pensare all’organizzazione dell’istituto e alla didattica, fare i presidi insomma. Invece, ancora una volta finiamo per essere il terminale ultimo dei problemi del Ministero, come per i vaccini, la sicurezza e l’edilizia”. Chissà se era questo che intendevano Matteo Renzi e l’ex ministra Stefania Giannini quando parlavano di “super presidi”.
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