“La mafia agrigentina è molto più pericolosa e seria di quella palermitana. È il fiore all’occhiello di tutti…”. A dirlo non è un investigatore, ma un esponente dell’organizzazione che parla con altri esponenti di Cosa nostra, senza sapere di essere intercettato. Gli interlocutori, come emerge dall’operazione Montagna, sono Giuseppe Luciano Spoto, il figlio Massimo, Giuseppe Nugara e Giuseppe Quaranta, tutti arrestati in un blitz che ha portato in cella 56 tra boss e gregari di Cosa nostra agrigentina, smembrato i mandamenti di Santa Elisabetta e Sciacca e colpito 16 famiglie mafiose.
In carcere, tra gli altri, sono finiti anche Francesco Fragapane, 37 anni, figlio dello storico capomafia di Santa Elisabetta, Salvatore – da anni ergastolano al 41 bis – e il sindaco di San Biagio Platani, Santino Sabella, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Le accuse contestate vanno dall’associazione mafiosa al traffico di droga, passando per truffa, estorsione e un’ipotesi di voto di scambio. L’organizzazione chiedeva anche soldi alle cooperative che si occupano dell’accoglienza ai migranti. E a casa di alcuni degli arrestati – che risultano tutti disoccupati – sono stati trovati contanti per mezzo milione di euro.
Dalle intercettazioni emerge “il manuale del buon mafioso o del buon estorsore”, ha spiegato il Procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi. Aggiungendo che “almeno una ventina di imprese che hanno subito episodi di danneggiamento non hanno neppure denunciato questi episodi, quindi non stiamo parlando della denuncia degli estorsori, ma dei danneggiamenti. Questo conferma la presenza e la vitalità e l’effetto intimidatorio che Cosa nostra continua ad produrre nella zona dell’Agrigentino”.
“Contatti con la ‘ndrangheta” – “La mafia c’è, la mafia c’è ancora e anche se c’è chi parla di una sua scomparsa è più che evidente che non è così, e che c’è ancora molto lavoro da fare. Non ci troviamo più di fronte alla Cosa nostra di trenta anni fa ma parlare della sua sconfitta definitiva è ancora prematuro, il lavoro da fare è ancora molto lungo”, ha commentato sempre Lo Voi. “Cosa nostra agrigentina ha anche contatti con la ‘ndrangheta calabrese“, ha poi detto il capo dell’ufficio inquirente palermitano, spiegando come siano “emersi contatti con personaggi calabresi, verosimilmente al fine di favorire attività in materia di traffico di droga“. Un altro aspetto sottolineato da Lo Voi riguarda le mancate denunce: “Duole rilevare che almeno una ventina di imprese che hanno subito episodi di danneggiamento non hanno neppure denunciato questi episodi, quindi non stiamo parlando della denuncia degli estorsori, ma dei danneggiamenti”. “Questo conferma – aggiunge il procuratore capo – la presenza e la vitalità e l’effetto intimidatorio che Cosa nostra continua ad produrre nella zona dell’agrigentino”.
Le intercettazioni – Il gruppo, in rappresentanza del mandamento della Montagna, come spiegano gli investigatori, “inizia a discutere delle alleanze con il confinante mandamento di Corleone con il quale vi sono stati sempre comuni interessi”. I presenti “parlano della necessità di conoscere i referenti dei vari mandamenti perché la situazione è così in continuo mutamento che è difficile orientarsi rischiando in questo di contattare la persona sbagliata e compromettere i già precari equilibri in seno alle varie famiglie mafiose”. A un certo punto, parlano di Antonio Giovanni Maranto, capo del mandamento di San Mauro Castelverde.
È il 23 febbraio 2014, a parlare per primo è Giuseppe Luciano Spoto. Poi gli risponde Giuseppe Quaranta: “La provincia di Agrigento sistema tutte cose…”. E aggiunge: “Come sistemiamo noi le cose in provincia di Agrigento… si spaventano tutti…”. Spoto dice: “La provincia di Agrigento è più seria, i palermitani sono come sono… le persone che c’erano… affidabili… non ci sono più”. E ancora: “Perciò se ce n’è qualcuno io non lo so … se ce n’è qualcuno ancora i non lo so … io posso arrivare fino a Corleone … A Corleone so che ci sono ancora persone con la testa sulle spalle … persone che ti dicono una cosa ed è una cosa”. E Quaranta conclude con fierezza: “La nostra provincia sembra il fiore all’occhiello di tutti…”.
In cella anche Fragapane – Scarcerato nel 2012 dopo aver scontato sei anni di prigione, Francesco Fragapane era stato poi riarrestato e nuovamente liberato la scorsa estate: attualmente era sorvegliato speciale. Il figlio di Salvatore ha ricostituito e retto lo storico mandamento che comprende tutta l’area montana dell’agrigentino e i paesi di Raffadali, Aragona, S. Angelo Muxaro e San Biagio Platani, Santo Stefano di Quisquina, Bivona, Alessandria della Rocca, Cammarata e San Giovanni Gemini. Nell’inchiesta sono coinvolti diversi familiari del padrino di Agrigento e capimafia a lui alleati. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara e Claudio Camilleri, contesta invece a Santino Sabella, eletto sindaco di San Biagio alle ultime amministrative, di avere concordato le candidature delle ultime comunali del 2014 con esponenti mafiosi di vertice del suo paese e fatto illecite pressioni nell’assegnazione di appalti.
Gli interessi dei clan sui centri d’accoglienza – La Dda di Palermo ha scoperto anche due associazioni che gestiscono l’accoglienza di migranti nel lungo elenco delle vittime del racket delle cosche agrigentine. Si tratta della Omnia Academy di Favara e della società cooperativa San Francesco di Agrigento. Le indagini dei carabinieri hanno accertato che nel mirino delle estorsioni era finita anche una piccola organizzazione, costretta a pagare il pizzo alla famiglia mafiosa di Cammarata. La Omnia Academy raccoglie 15 richiedenti asilo distribuiti presso diversi enti locali della provincia. Secondo le indagini, della estorsione si erano occupati personalmente i presunti capomafia Calogerino Giambrone e Giuseppe Quaranta, che contattarono il rappresentante della associazione per chiedere un aiuto economico per la famiglia mafiosa. Dalle indagini è emerso che nella struttura era stata assunta anche la figlia del sindaco di Cammarata, Vito Mangiapane, che secondo i due mafiosi, avrebbe approfittato del suo ruolo per far assumere dall’ente la familiare. Mangiapane non è coinvolto nell’inchiesta.
Nel caso della coop San Francesco, invece, secondo le indagini era stato lo stesso responsabile a cercare l’appoggio del boss “per individuare – spiega il gip – un immobile da adibire a centro di accoglienza nell’area compresa tra i comuni di San Giovanni Gemini e Cammarata e successivamente ottenere le relative autorizzazioni comunali dalle amministrazioni locali”. Calogerino Giamberone, secondo l’accusa, avrebbe curato la gestione di tutta la parte amministrativa, “con l’intento di ottenere, quale corrispettivo dell’interessamento, l’assunzione da parte della cooperativa di persone vicine al clan e il pagamento di una somma in denaro da stabilire in percentuale sul numero degli immigrati ospitati nel centro”.
I commenti dei boss sulla moglie del boss – Dalle intercettazioni emergono dettagli sulle abitudini di vita della moglie del boss. Èil 12 giugno 2014, e Giuseppe Nugara e Giuseppe Luciano Spoto vanno a Raffadali ad incontrare Antonino Vizzì, “referente della famiglia mafiosa di Raffadali ed unico ad avere contatti con gli appartenenti alla famiglia Fragapane“, come dicono gli inquirenti. Parlando del pagamento in denaro alla moglie di Francesco Fragapane, detenuto, i due interlocutori si dicono “amareggiati” per il fatto che l’interessata, “nonostante l’evidente difficoltà in cui versano le famiglie mafiose coinvolte, pretenda sempre più di quello che gli viene consegnato perché abituata ad un determinato stile di vita“. Per quale motivo i boss parlando di pagamenti in denaro? È consuetudine, tra i mafiosi, mantenere economicamente le famiglie dei boss arrestati. Prosegue Nugara nell’intercettazione: “Ma se per adesso ci sono tempi brutti… che c’è da fare” – continua Nugara – ” Il padre la prende per le orecchie e gli dice: ‘Bella mia, vedi che soldi non ce ne sono, che fai?’, così. Se a lei gli piace la bella vita… la bella vita come gli deve piacere che il marito è rinchiuso…”.
Le perquisizioni nelle case degli arrestati – Gli investigatori sono rimasti sorpresi quando, durante le perquisizioni nelle abitazioni degli indagati, hanno trovato somme in contanti molto ingenti. Si tratta di Domenico Maniscalco di 52 anni, a cui hanno trovato la somma di 49.200 euro; di Giuseppe Spoto, 69 anni, nella cui abitazione sono stati rinvenuti 230.350 euro; Giuseppe Blando di 53 anni a cui sono stati trovati 17.800 euro. Infine, Vincenzo Mangiapane di 63 anni a cui sono stati trovati 200 mila euro. Risultano tutti disoccupati.