Con la cultura non si mangia, si sa. E si sa altrettanto che quanto pensava l’ex Mani di Forbice Tremonti è una sonora corbelleria. Fatto sta che, quando la crisi è arrivata, nel 2008, i primi a cadere sono stati i più deboli: meglio tagliare sulla cultura, si diceva, che sulla sanità e sulla scuola, o sugli ammortizzatori sociali. Ovvio. Peccato, però, che poi si sia tagliato comunque su scuola, sanità, pensioni, ma che si sia addirittura aumentato l’investimento in armi e missioni militari.

Ovvio poi che, tra i più deboli, siano caduti quelli più fragili tra loro, dunque prima di tutto la poesia, che senza l’aiuto delle istituzioni ha iniziato a dissolversi come neve al sole: decine di festival ed eventi chiusi per sempre, spazi sprangati, iniziative editoriali incenerite. Come sempre in tempi di crisi, si è messo in moto un meccanismo di ‘trust’, grazie a cui sono sopravvissuti solo gli eventi più grandi, che hanno cannibalizzato i più piccoli. Ciò che manca oggi in Italia non sono i grandi festival di letteratura (che anzi si fanno spietata concorrenza tra loro), ciò che manca è la rete di base che potrebbe davvero dare sostanza e costanza a quanto accade negli eventi maggiori.

Né c’è da sperare nell’Europa, visto che il meccanismo dei Bandi europei, basato com’è sulla compartecipazione e il co-finanziamento, non fa che alimentare quanto già c’è (e più grande è, più danari di co-finanziamento prende), ignorando quanto potrebbe nascere di nuovo se solo si prestasse attenzione alla realtà e si accettasse di scommettere su qualcosa che ancora non c’è, su idee e progetti nuovi.

Ma la poesia è come un gatto: ha sette vite e casca sempre in piedi. Così, là dove altri avevano voluto il deserto, la poesia ha continuato a fiorire, auto-organizzandosi, basandosi sul volontariato, su decine di piccole associazioni e iniziative. La poesia è abituata a essere gratuita, a non avere valore di scambio, proprio perciò eliminarla, tagliandole i fondi, è impossibile.

È il caso di due festival piccoli, ma straordinari: per acutezza delle scelte, per coraggio, per voglia di ricostruire un discorso dove altri hanno da proporre solo partite doppie.

Poesia carnosa nasce a Roma nel 2010, quando tutto muore, ed è un mini-festival dedicato alla poesia sonora e alla poesia performance, fondato e diretto dal duo Acchiappashpirt, il compositore Stefano Di Trapani e la poetessa Jonida Prifti. Coraggioso, a volte felicemente spericolato nelle sue proposte e nelle sue realizzazioni, è uno spazio che definirei ad alto rischio (e la poesia è rischio!), in cui maestri e giovani autori italiani e internazionali s’incrociano e cortocircuitano senza rete in serate intense e imprevedibili.

La poesia sonora, che altrove è riconosciuta e rispettata, da noi è ignorata. Stretti tra l’onda montante dello slam e i grandi festival in cui lo spazio c’è solo per gli autori mainstream, il duo romano si è messo in gioco e ha provato a costruire un evento in cui l’attenzione per la qualità e le tecniche del suono e della performance poetica fossero imprescindibili. «Esibirsi fra quattordici artisti con un pubblico di centinaia di persone è anche un modo per mettere su uno slam perenne senza esplicitarlo – sostiene  Di Trapani – La nostra formula è sempre stata quella di abolire l’idea di poesia seduta, privilegiando una poesia da ascoltare in piedi, come fosse un concerto punk».

Insomma: un piccolo gioiello di coraggio e capacità di osare immaginando il futuro.

Molto diverso è il caso di Bologna in Lettere, festival nato nel 2013 dall’iniziativa di Enzo Campi e di un gruppo di poeti di varie età e ancor più varie poetiche, facendo seguito alla precedente esperienza di Letteratura necessaria.  È una rassegna sorta con l’intenzione di creare uno spazio condiviso di dialogo «in cui amalgamare classicità e sperimentazione attraverso la veicolazione di linguaggi multidisciplinari – come sottolinea Campi – Lo slogan che lo caratterizza è “un festival lungo un anno”, perché gli eventi coprono l’arco temporale di un anno e culminano nelle sei giornate di maggio in cui la poesia, la scrittura, la video-arte, la fotografia, il teatro e la performance uniscono le proprie forze per un fine comune: la disseminazione della parola».

Se l’evento romano scommette sull’intensità fulminea dell’happening, Bologna in Lettere investe sulla capacità di fare ‘rete’, di costruire scambio e dibattito, di durare a intensità apparentemente bassa, ma costante. In questi anni ha riunito a Bologna centinaia di artisti e studiosi, li ha fatti dialogare, ha dato impulso allo studio e alla riscoperta di autori fondamentali e fondamentalmente ignorati, come Emilio Villa, grazie all’appoggio della casa editrice Marco Saya ha pubblicato testi, raccolte, saggi, organizza un premio di poesia tra i più seri e affidabili d’Italia.

Non è poco, anzi è tantissimo: una straordinaria capacità di produrre letteratura e poesia e di fare intrapresa culturale.

In entrambi i casi parliamo di eventi completamente autofinanziati, sostanzialmente senza alcun appoggio o attenzione da parte delle istituzioni, basati sul volontariato di chi li organizza e di chi partecipa. Sono realtà che fanno supplenza, laddove chi dovrebbe agire latita e magari se ne fa vanto.

Se ne parlo, ovviamente, non è perché io e chi li organizza siamo felici di tutto ciò, o per intonare l’ennesimo peana del volontariato e/o dell’indie. Fieri sì, certamente, ma felici no. Se ne scrivo è perché sarebbe ora che le istituzioni locali, nazionali, europee ricominciassero a investirci e dessero loro gli strumenti indispensabili per svilupparsi e crescere. Non è vero che i soldi non ci sono: più semplicemente si preferisce sprecarli altrove. Perché conviene, ça va sans dire

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