Nel maggio 2001 la Casa delle libertà vince le elezioni. A settembre c’è da approvare la Finanziaria e il premier Berlusconi, incontrando le parti sociali, allarga le braccia e ammette: ”Abbiamo rinunciato per il momento e per necessità a un segnale forte di riduzione della pressione fiscale”. “Non ho la bacchetta magica”, è la chiosa. Niente aliquota massima al 33%, insomma. Ma un contentino c’è: viene abolita l’imposta di successione. L’Espresso calcola in 9,8 miliardi il risparmio per ognuno dei suoi cinque figli. A dicembre l’allora Cavaliere rivendica: il governo ”pur operando in ristrettezza non ha aumentato le tasse, cosa quasi miracolosa”. Nel 2002 il piano sulla riforma Irpef sembra decollare: viene varato un ddl delega che prevede, seppure “a tappe”, l’approdo alle agognate due aliquote, oltre alla rimodulazione dell’Irap, al calo dell’aliquota per le imprese e alla proroga dello scudo fiscale sui capitali esportati. A maggio c’è il primo sì della Camera. Nel marzo 2003 il ddl è legge. Ma a quel punto il progetto si arena. L’intesa con la Lega non si trova, gli alleati discutono per mesi, il vicepremier Fini frena sostenendo che basta mantenere l’impegno “entro fine legislatura”. A luglio il ministro dell’Economia Tremonti si dimette. Nel frattempo la luna di miele con gli elettori è finita: il governo ha in cantiere una riforma delle pensioni che alza i requisiti per lasciare il lavoro. Dopo lo sciopero generale di aprile le macchine si fermano, ma la riforma Maroni – quella che impone l’aumento da 57 a 60 anni dell’età anagrafica a partire dal 2008 – si farà comunque l’anno dopo. E’ “urgente e ineludibile“, spiega in un messaggio tv a reti unificate Berlusconi – che oggi intende abolire la legge Fornero – ricordando l’invecchiamento progressivo della popolazione e avvertendo che la spesa sarebbe cresciuta “in maniera continuativa fino al 2030”, “una situazione non sostenibile”.

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