E’ successo “perché c’era la nebbia“. E’ successo perché al comando del Moby Prince “erano distratti“, anzi no: “troppo sicuri di sé”. Fino al fatalismo: è successo per il “destino cinico e baro”, è successo perché certe cose succedono e “bisogna accettarle”. E ancora giù in fondo, fino a sfiorare l’infamia: è successo perché sulla nave “guardavano la partita di pallone in televisione”. Ora quelle bugie, quelle mezze verità, quelle storie distorte, quelle risposte facili non ci sono più: sono svanite una volta per tutte alla luce di una nuova verità sul disastro del Moby Prince, il traghetto che Livorno nel 1991 vide avvolto dal fuoco davanti al lungomare dopo lo scontro con una petroliera, la Agip Abruzzo. Ora c’è un nuovo vocabolario da utilizzare per spiegare perché su quella nave morirono in 140: soffocati dal fumo, annichiliti dal calore, bruciati. Solo ora: 27 anni dopo.
E’ il vocabolario della commissione d’inchiesta del Senato che ha ribaltato le ricostruzioni ufficiali che si sono trascinate per inerzia tutto questo tempo grazie a mezze verità, bugie intere, complicità, silenzi lunghissimi, depistaggi veri e propri, sbalorditive cialtronerie. Due anni di lavoro, oltre 70 audizioni, decine di testimoni chiave, migliaia e migliaia di documenti consultati e analizzati, sei perizie, analisi ad alta tecnologia sui filmati dell’epoca, carte mai viste prima, mai nemmeno cercate prima. I senatori, con una relazione approvata all’unanimità, cancellano le due inchieste della magistratura condotte a 15 anni di distanza, nel 1991 e nel 2006. “La commissione è consapevole di non aver chiarito tutti i punti oscuri – si legge – ma può affermare con sicurezza di aver raggiunto una ricostruzione del fatto decisamente più vicina alla realtà”. Si tratta, si legge nella relazione, di “novità chiare e precise”. “Non è tutta la verità, ma di sicuro è una verità più ricca di quella che sino a questo momento è stata proposta”.
Una ricostruzione che non solo esclude la nebbia come causa anche solo marginale del disastro, ma allinea gli errori dei magistrati e l’incapacità della Capitaneria di porto. E soprattutto – per la prima volta – riconosce le opacità dell’armatore dell’Agip Abruzzo – la Snam, società di Stato – e getta un’ombra su Vincenzo Onorato, l’armatore di Moby, per via di accordi e polizze assicurative che generano più di un dubbio.
La nebbia non è stata la causa del disastro. Ma l’alibi
La nebbia fu indicata subito, alle 3 del mattino (4 ore dopo la collisione) come causa della tragedia dall’ammiraglio Sergio Albanese, comandante della Capitaneria. La nebbia è poi tornata più e più volte nelle inchieste, nei dibattimenti e nelle sentenze, anche sotto forma di “fumo”, di “vapore”, di “nube biancastra”. Qualsiasi cosa fosse, per la commissione, non fu la causa della collisione. “Sono numerosi – si legge – i testimoni qualificati che hanno fornito l’immagine di una serata serena con ottima visibilità”. Per la prima volta c’è una prova. Un filmato registrato dalla costa con una telecamera vhs pochi minuti dopo l’impatto tra
il traghetto e la petroliera è stato ottimizzato dal Racis dei carabinieri, su incarico dei commissari: dimostra la visibilità totale. “La nebbia ha immotivatamente costituito una, se non la principale, causa di giustificazione del conclamato caos organizzativo che ha contraddistinto la fase dei soccorsi da parte della Capitaneria di porto”. La nebbia non fu la causa, dunque. Ma l’alibi.
Capitaneria incapace, inadeguata, sconcertante
Motivi per cercare alibi, tra le uniformi della guardia costiera, ce n’erano. In sostanza, secondo la commissione, dalle 22,25 del 10 aprile la Capitaneria ha “abdicato” al suo ruolo di coordinamento dei soccorsi che per il traghetto “non ci sono stati”. Le accuse della commissione su questo aspetto si moltiplicano: la prima, la Capitaneria non cercò mai il traghetto; la seconda, la Capitaneria non tentò mai di mettersi in contatto via radio con le imbarcazioni appena uscite dal porto (e l’unica nave era il Moby); la terza, non si tentò mai di spegnere l’incendio a bordo né di prestare soccorso a passeggeri ed equipaggio; la quarta, non erano previste attività di formazione e addestramento per eventi di questo tipo; la quinta, la Capitaneria non ha mai valutato l’incidente nella sua gravità; la sesta, la Capitaneria non ha mai coinvolto il comando superiore dell’Alto Tirreno della Marina militare nonostante avesse mezzi di soccorso risibili. Un contesto che provoca “sconcerto”, scrivono i senatori. “Non è dato comprendere – si legge tra l’altro – come e per quali motivi il comando della Capitaneria non sia riuscito a correlare l’avvenuta partenza di un’unica nave dal porto con la collisione”.
Inadeguatezza, impreparazione, incapacità sono le parole usate. Che i soccorsi non fossero mai esistiti lo scrisse già venti giorni dopo l’incidente, 27 anni fa, il capo delle capitanerie, l’ammiraglio Giuseppe Francese, in un dossier inviato al ministero. Ma non ebbe mai nessuna conseguenza. Ora, per la prima volta, i senatori si soffermano su questo aspetto, anche con toni gravi: “La commissione ritiene che si possa ravvisare una responsabilità sulla morte di alcuni passeggeri e membri dell’equipaggio che sono sopravvissuti con certezza oltre i 30 minuti definiti dalla sentenza”.
Sul traghetto non morirono tutti in mezz’ora
L’assenza dei soccorsi al Moby Prince non è mai finita in un’inchiesta proprio perché, come un totem, ha sempre resistito la premessa che a bordo erano tutti morti in mezz’ora e che qualsiasi intervento sarebbe stato superfluo. Ma non è vero e la smentita vive in provincia di Napoli: è l’unico sopravvissuto, il mozzo Alessio Bertrand, salvato dopo un’ora e mezzo. Non c’è solo lui. Decine di persone furono trovate morte nel salone Deluxe del traghetto con in tasca le istruzioni per il salvataggio, il salvagente addosso, i bagagli vicini. La squadra antincendio era al proprio posto, a poppa, con le pompe srotolate. Il barista della discoteca Francesco Esposito fu trovato in mare, morto annegato, con l’orologio fermo sulle 6. Il passeggero Gerhard Baldauf e il macchinista Giovanni Abbattista furono ritrovati nella sala macchine, in un evidente estremo tentativo di salvarsi. Il corpo del cameriere Antonio Rodi all’alba (quasi 10 ore dopo l’incidente) fu fotografato integro accanto a corpi carbonizzati, come se fosse appena uscito da un’area risparmiata dall’inferno. Invece al pool di medici legali fu chiesto solo altro: di fare presto. “Colpisce – scrive la commissione – che sui corpi delle vittime non sia stata fatta alcuna indagine per definire le cause di morte, ma ci si sia limitati al solo riconoscimento”. Nemmeno l’esame tossicologico che ormai si ordina anche per i morti d’infarto.
L’indagine sulla Capitaneria? Fatta dalla Capitaneria
E’ solo uno dei punti di un’inchiesta “carente e condizionata da diversi fattori esterni” sottolinea la relazione del Senato. Tra tutti, un fatto quasi incredibile: la Procura avviò le sue indagini e utilizzò i risultati a partire dall’inchiesta amministrativa condotta dalla Capitaneria. Si tratta di un rapporto firmato da 4 ufficiali: tre di loro avevano partecipato attivamente a tutte le operazioni di soccorso. “E’ di tutta evidenza che costoro ben difficilmente avrebbero potuto essere dotati di quella terzietà che deve necessariamente contraddistinguere l’operato di qualsivoglia attività investigativa”.
L’Agip parlò di una bettolina, ma non poteva non riconoscere un traghetto
Ma anche altri fattori esterni, gli stessi percepiti dalla commissione quasi trent’anni che sottolinea il proprio “stupore” per “alcune dichiarazioni rese in audizioni” che si sono rivelate “convergenti nel negare evidenze in atti a loro attribuiti o di fornire versioni inverosimili degli eventi”. In certi casi, come per l’equipaggio dell’Agip Abruzzo, le “narrazioni” sono partite da lontano. Dall’inizio. Nelle prime ore i soccorsi si concentrano esclusivamente sulla petroliera, proprio perché l’Agip fa di tutto per attirare l’attenzione dei soccorritori su di sé: “State attenti che non scambiate lei per noi” mette in guardia alla radio il capitano della petroliera, Renato Superina. E nel frattempo dà informazioni confuse: parla di nave, poi di “bettolina”. Come scambiare con una betoniera con una bicicletta. Gli ufficiali dell’Abruzzo, sentiti in commissione, si sono giustificati con la concitazione per l’emergenza. Eppure alcuni hanno detto di aver visto una “sagoma di una grossa imbarcazione”, altri hanno parlato di “finestroni” (tipici delle navi passeggeri). Eppure, il video registrato dalla costa documenta che le navi restano agganciate fino a 10 minuti dopo l’impatto. “Il periodo di incaglio rende difficilmente comprensibile il comportamento tenuto dall’equipaggio della petroliera sul mancato riconoscimento del traghetto”. Più a fondo: “Appare evidente che anche dopo l’abbandono nave, conclusa l’emergenza, non vi sia stato il minimo contributo a segnalare la presenza del secondo natante”. Più a fondo: “In generale le dichiarazioni” dei marinai della petroliera “appaiono coordinate e finalizzate a sollevare da qualsiasi responsabilità la società armatrice e il comando della petroliera”.
Indagato l’Onorato sbagliato, le perizie sulle navi mai fatte
L’inchiesta della Procura – sotto organico, con un solo pm a indagare, quasi allo sbando – è stata una sequela di errori, anche di un certo peso specifico. Il più luminoso: fu indagato Achille Onorato al posto del vero armatore, il figlio Vincenzo. “A tale singolare errore non fu mai posto rimedio tanto che sull’armatore – scrive la commissione – e, cosa ben più grave, sulla società Navarma che egli rappresentava non c’è stata alcuna forma di approfondimento investigativo“. Non solo: la Agip Abruzzo fu dissequestrata dopo soli 3 mesi dall’incidente. I periti mandati dalla Procura fecero solo un giro sulla nave Snam – uno solo e con verifiche “a vista” – il 7 giugno. Un mese dopo la nave fu dissequestrata: una decisione “al di fuori di ogni logica investigativa e non giustificabile da ragioni tecniche” sottolinea la commissione. L’Agip rimase per qualche mese parcheggiata nella rada di Livorno, finché non partì per Las Palmas per essere demolita.
L’opacità della Snam e le rotte fantasma della petroliera di Stato
La Procura, insomma, si fece spiegare i soccorsi dalla Capitaneria, indagò l’armatore della Moby sbagliato, non fece perizie sulla petroliera. Il genere e la quantità del carico – 82mila tonnellate di iranian light – per esempio li conobbe con un’autocertificazione. E così nel frattempo nessuno scoprì che perfino Snam, la società (che non è la stessa Snam di oggi, dopo lo scorporo nel 2012 da Eni, ndr) dello stesso Stato che piangeva 140 morti, nascondeva la sua verità. La petroliera infatti era a Livorno dal 9 aprile, il giorno prima del disastro, e le carte dell’azienda sostengono che fosse arrivata da Sidi el Kerir, in Egitto, da dove era partita il 4 aprile: un viaggio-record di soli 5 giorni – di cui ilfatto.it aveva già parlato in esclusiva -, una corsa quasi proibitiva e sicuramente inedita su una rotta che la stessa nave di solito copriva in 10 giorni almeno. In realtà la verità era nei registri (imparziali) della Lloyd List Intelligence di Londra: l’Agip Abruzzo da Sidi el Kerir partì il 7 marzo ma non si diresse subito a Livorno. Prima passò da Fiumicino (17 marzo), da Genova (19) e infine a Livorno. E allora nella cisterna 7 speronata dalla prua del Moby c’erano davvero 2600 tonnellate di iranian light? Ce n’era di più, di meno? C’era un altro genere di petrolio? La magistratura non verificò mai. Un perito del tribunale civile incaricato per una questione assicurativa poté farlo solo dopo il trasferimento del greggio su un’altra petroliera, la Agip Piemonte. Il consulente nella relazione al tribunale rispose più o meno così: l’ho fatto, ma sappiate che è inutile. Aveva chiesto il permesso di salire sull’Abruzzo, ma gli venne negato. Dall’ammiraglio Albanese, il capo dei soccorsi.