Da agguerriti barricaderi a moderati nel giro di una legislatura. In estrema sintesi è questa, secondo una vasta analisi intitolata The Global State of Democracy, la parabola più tipica dei cosiddetti partiti populisti che impazzano in Europa e nel mondo della crisi economica infinita. Lo studio è prodotto dall’International Institute for Democracy and Electoral Assistance, anche conosciuto come IDEA, organizzazione indipendente guidata dall’ex primo ministro belga Yves Leterme, con sede a Stoccolma che vanta lo status di osservatore delle Nazioni Unite e alla quale appartengono oltre 30 Paesi di tutti i continenti, ma non l’Italia.

Secondo l’analisi, in particolare, tra i movimenti e partiti cosiddetti populisti a sinistra si distinguono Podemos in Spagna e il Partito Pirata in Islanda, a destra AfD in Germania, Alba Dorata in Grecia e il Partito per la Libertà olandese. Tra i due poli, invece, l’Istituto segnala gli spagnoli di Ciudadanos, i francesi di En Marche!, i romeni dell’Unione Salva. Mentre sfugge a queste riclassificazioni il Movimento 5 Stelle, che secondo l’IDEA combina politiche sociali di sinistra con posizioni popolari anche tra i partiti di destra. Molte di queste realtà, che hanno risposto alla mancanza di alternative offerta dai partiti tradizionali, si scagliano contro le istituzioni internazionali, l’economia globalizzata e l’interdipendenza tra le nazioni. In questi contesti il populismo, afferma l’IDEA, “è generalmente guidato dall’alienazione di classe insieme a politiche identitarie aggressive”, anche se si stanno affermando analisi che prendono avvio non solo dall’insicurezza economica e dalla delocalizzazione produttiva, ma anche dalla trasformazione valoriale delle società attuali.

In generale, in ogni caso, gli elementi alla base della nascita dei partiti populisti e degli exploit elettorali che stanno registrando in giro per il mondo, sono l’insicurezza economica e sociale, nonché l’inefficacia politica. Ma dopo campagne infuocate, alla prova di governo tali formazioni approdano a posizioni decisamente più moderate, spesso puntando su provvedimenti simbolici in linea con l’universo valoriale dei votanti. In certi casi un po’ poco agli occhi dei propri elettori, e dunque non mancano i casi di un ritorno all’opposizione dove capitalizzare i voti di protesta. Anche se questo non vale per la minaccia anti-europeista, che dopo Brexit appare smorzata, e secondo i sondaggi non incontra consensi nemmeno all’interno degli elettorati di riferimento.

Resta il fatto che il filo rosso che unisce le agende dei movimenti di stampo populista tocca isolamento e chiusura economica, attacchi alle istituzioni e politiche redistributive. Ma non solo. Due autorevoli esponenti che si sono espressi su questo tema, Ronald F. Inglehart, docente della University of Michigan, e Pippa Norris, docente della Harvard Kennedy School, in un paper pubblicato lo scorso anno  (Trump, Brexit, and the Rise of Populism) attribuiscono lo sviluppo di questo fenomeno soprattutto al cultural backlash che ha interessato ampie fasce della popolazione, ovvero la reazione ai cambiamenti culturali della società a seguito della diffusione dei valori progressisti. Protezione ambientale, attenzione all’uguaglianza di genere e razza, nuovi diritti per le minoranze sono questioni che hanno guadagnato sempre più spazio innestandosi in una nuova tolleranza sociale per stili di vita e culture diverse, insieme a multiculturalismo, protezione delle libertà fondamentali e diffusione dei diritti umani. Nuove sensibilità che hanno condotto a nuove politiche sociali, con l’effetto collaterale di generare un inedito timore di marginalizzazione nella propria società tra i cittadini meno scolarizzati e più avanti con l’età, che una volta rappresentavano una privilegiata maggioranza e oggi si sentono minacciati dal “politicamente corretto”.

Trump, Brexit, ma non solo, quindi. Alla prova delle urne è stato registrato lo scorso ottobre il rilevante successo del Partito della Libertà in Austria. Il partito di estrema destra già guidato da Jorg Haider ha raccolto non molte settimane fa il 27,4% dei consensi, superando i socialdemocratici al loro peggior risultato della storia, e ponendosi alle spalle solo dei conservatori del neo Cancelliere 31enne Sebastian Kurz, capo di governo più giovane al mondo. Dopo una complessa trattativa il FPÖ ha guadagnato gli strategici ministeri degli Esteri, degli Interni, della Difesa, oltre a Sanità e Infrastrutture e Trasporti, e la carica di vice Cancelliere strappata dal leader del partito Heinz-Christian Strache. Tasse più basse e flessibilità sul lavoro, ma anche taglio dei sussidi per i richiedenti asilo ed espulsioni più facili dei non aventi diritto fanno parte delle 182 pagine del programma di coalizione. Ma ad aver generato rumore sulla stampa e tra l’opinione pubblica è stata soprattutto l’eliminazione del divieto di fumo nei luoghi pubblici voluto dal governo uscente, che sarebbe dovuto entrare in vigore il prossimo anno. Una misura con una notevole forza simbolica agli occhi dell’elettorato, così come la “Legge contro la copertura del volto”, ribattezzata prontamente in “Burqa Verbot”, ovvero divieto di burqa. Promossa da Kurz, approvata in piena campagna elettorale e promulgata a ridosso delle elezioni, è stata senz’altro un fattore importante per i partiti vittoriosi, in un Paese in cui la popolazione musulmana ha toccato la quota dell’8 per cento.

In Germania, invece, dopo la tornata elettorale dello scorso settembre, AfD ha deciso di non passare ancora all’incasso dell’exploit nelle urne, e dopo aver attraversato una fase delicata con le dimissioni della leader Frauke Petry, in polemica con i membri più estremisti della formazione politica, punta a crescere ancora nella tornata elettorale del prossimo anno in Baviera. Qui la Csu, che doveva rappresentare un argine al populismo, ha perso il 10% mentre AfD ha ottenuto un importante 12,6%, in crescita dell’8% rispetto a quanto raccolto nel 2013. “Il partito – ha scritto Christian Blasberg, docente di Storia contemporanea della Luiss Guido Carli – è di ben altro calibro rispetto a precedenti casi di partiti dell’ultradestra in Germania, e, nel caso di nuove elezioni, potrebbe rafforzarsi ulteriormente a scapito di una Cdu/Csu che è in crisi evidente. Le idee dell’AfD hanno già un’influenza considerevole sulla cultura tedesca che sta subendo una netta involuzione protezionistica e identitaria”. Chissà se nelle valutazioni politiche di AfD, nato appena nel 2013, ha avuto un peso l’esperienza di governo del partito amico Veri Finlandesi, movimento nazionalista finlandese che alle elezioni del 2011 aveva ottenuto il 19% dei voti e 39 seggi, diventando il terzo partito, e nel 2015 il 17,7% e 38 seggi, diventando invece il secondo partito ed entrando per la prima volta nella compagine governativa, insieme al Partito di Centro e ai liberisti del Partito di Coalizione Nazionale.

Lo scorso giugno, tuttavia, il Paese scandinavo è andato incontro a un’improvvisa crisi di governo, aperta dal primo ministro Juha Sipilä dopo la vittoria nel congresso di Veri Finlandesi del nuovo leader Jussi Halla-aho, già condannato per incitamento all’odio razziale ed etnico. Crisi poi rientrata solo grazie alla scissione di ben 20 parlamentari, inclusi i ministri importanti del governo come Difesa, Affari europei, Lavoro, Welfare e Sanità, meno vicini alle posizioni estremiste e anti-europeiste del nuovo leader, dando vita a una nuova formazione politica. Crollati nei sondaggi, scendendo sotto quota 10 per cento per essersi adagiati sulle posizioni moderate degli altri partiti della coalizione, Veri Finlandesi ha deciso di cambiare rotta scegliendo la linea radicale. Laura Huhtasaari, per esempio, è la candidata del partito alle prossime elezioni presidenziali del 28 gennaio e intende portare la Finlandia fuori dall’Unione Europea per trasformarla nella Svizzera del nord.

I sondaggi le accreditano il 3 per cento, ma il report di IDEA, con i risultati di un’indagine condotta quest’anno da Pew Research, ha sottolineato come il sostegno ai partiti euroscettici non si traduca mai automaticamente nella volontà di uscire dall’Unione Europea: il 54% dell’opinione pubblica francese con un giudizio positivo sul Front National preferisce restare nella Ue. Lo stesso in Germania, dove il 69% di chi ha un giudizio positivo sull’AfD vuole che Berlino non abbandoni l’Unione Europea. L’Austria, intanto ha già imparato la lezione, e il suo nuovo esecutivo in fase di insediamento ha ricevuto il placet da parte del presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, e del presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, che hanno espresso fiducia nelle credenziali europeiste della compagine di governo: “Nel programma ci sono proposte che ci vanno bene quasi al 100% – ha detto Juncker -, Kurz e il suo esecutivo hanno preso posizione a favore dell’Europa ed è ciò che conta”. E lo stesso Cancelliere ha ribadito pochi giorni fa a Parigi: “Vi chiedo di giudicarci sul nostro programma e sui nostri atti. Il nostro è un programma filo-europeo che punta a svolgere un ruolo nell’Ue per una sua progressione positiva”.

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