di Manuel Marocco*

Il salario minimo è presente in tutti i paesi europei e costituisce una pietra angolare del modello sociale europeo. Nel Pilastro Europeo dei diritti sociali (volto all’individuazione di un nucleo di principi e diritti sociali europei, derivanti dalla ricognizione dell’acquis sociale della Ue e da fonti di diritto internazionale), del resto, oltre ad essere richiamato il diritto a retribuzione eque e sufficienti, sono fissati due principi per l’ipotesi in cui sia la Legge a determinare il salario minimo. Il Pilastro non si spinge, come si è discusso, sino alla fissazione di una soglia minima europea; d’altro canto, sulla base dei Trattati europei (art. 153, TFUE), la materia salariale è saldamente di competenza nazionale.

La distinzione fondamentale tra i regimi europei concerne il campo di applicazione, di tipo universale, in quanto applicabile a tutti i lavoratori, ovvero settoriale, poiché destinata a settori o gruppi di occupati. Nettamente prevalente è il primo regime, presente in 22 paesi su 28; nel secondo rientra l’Italia, insieme ai paesi inventori della flexicurity (Danimarca, Finlandia e Svezia) e l’Austria. Al campo di applicazione corrisponde, di fatto, lo strumento di determinazione del salario minimo: i paesi con regime universale utilizzano a tale scopo la Legge, gli altri il contratto collettivo, eventualmente accompagnato da meccanismi di estensione legale (Austria e Finlandia). Si tratta di paesi in cui l’assenza di un intervento pubblico è tradizionalmente controbilanciata da alti livelli di copertura della contrattazione collettiva, nonché di densità associativa, e/o da meccanismi legali di sostegno della membership, a garanzia del salario contrattuale. Solo di recente (gennaio 2015) la locomotiva d’Europa – la Germania – ha abbandonato questo modello e ha deciso di introdurre il salario minimo legale (SML).

Nei paesi del primo gruppo, varia notevolmente il valore nominale del SML, la frequenza degli aggiornamenti, i parametri di calcolo e le procedure di determinazione.

Particolarmente delicate sono queste ultime. Da questo punto di vista, possono essere distinti tre modelli (European Commission, 2016), sulla base della più o meno rigorosa formalizzazione della stessa procedura e, di conseguenza, del livello di discrezionalità del governo.

In alcuni sistemi – pochi – il processo è privo di formalità: lo strumento è nella piena discrezionalità dell’Esecutivo, non esistendo specifici obblighi di negoziazione o consultazione di altri attori, ma solo una generale previsione di consultazione e cooperazione con le parti sociali nel caso di interventi in materia di lavoro.

In altri, è prevista la partecipazione di altri attori, variandone forma e valore. In questo gruppo, quello più numeroso, rientrano, innanzi tutto, i casi in cui è il SML è determinato da un organismo terzo, partecipato o meno dalle parti sociali. In Germania, inizialmente il livello è stato fissato dal governo, dopo aver consultato parti sociali ed esperti; tale compito spetta ora ad una apposita Commissione, i cui componenti sono nominati dal Ministero del Lavoro su indicazione delle parti sociali. Sempre nello stesso gruppo, rientrano i paesi in cui il governo procede dopo aver consultato le parti sociali: in alcuni casi questa consultazione è solo eventuale, in quanto è l’Esecutivo a decidere, in altri la consultazione è prevista, ma si svolge in via informale ed, infine, in altri ancora si realizza in forma istituzionale. Nell’ambito di questo gruppo risultano accorpate tradizioni istituzionali molto diverse, e, di conseguenza, spesso la prassi varia al variare degli equilibri politici. Nel 2016-17 (Eurofound, 2017) in diverse nazioni, il SML è stato fissato unilateralmente dal governo, poiché, diversamente dal passato, le parti sociali sono solo state informate, ma non coinvolte nella decisione (Spagna), ovvero perché le stesse non hanno raggiunto un accordo (Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia). In Ungheria e Grecia (rispettivamente dal 2011 e dal 2012), le parti sociali sono state relegate ad un ruolo solo consultivo.

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*INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche

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