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Molestie sessuali, da Woody Allen agli Oscar il deprecabile moralismo del cinema Usa

Provate a chiedere a Woody Allen o a James Franco. Oppure provate a dare una sbirciatina alle nomination degli Oscar 2018. Un concentrato di falsa coscienza da denuncia al garante del pudore. Insomma: “bravi ma basta” e subito

La polemica di Davide Turrini

Ma quanto sono ipocriti a Hollywood in questo periodo? Non che non lo siano mai stati, però ora si sta esagerando davvero. Provate a chiedere a Woody Allen o a James Franco. Oppure provate a dare una sbirciatina alle nomination degli Oscar 2018. Un concentrato di falsa coscienza da denuncia al garante del pudore. Insomma: “bravi ma basta” e subito. Quando durante il mini show delle nomination agli Oscar 2018 si è sentito il nome di Christopher Plummer tra i cinque concorrenti alla statuetta come miglior attore non protagonista si è subito capito dove si andava a parare. La damnatio memoriae che ha colpito Kevin Spacey qui trova il suo compimento. Pur di far capire che la politica dell’Academy è quella di fare sciò sciò ai presunti molestatori seriali ecco inserire un grandissimo attore (leggasi: siamo in una botte di ferro) che in pochi giorni ha rigirato decine di scene in fretta e furia per non far andare in malora mister Ridley Scott e soci produttori. Film orrendo, tra l’altro, Tutti i soldi del mondo, con un Plummer/Getty che la storia ha già dimenticato, come chiunque ha già dimenticato il film che, guarda caso, ottiene una nomination proprio per quel signore che sostituisce Spacey.

Ma davvero? È successo sul serio? Sì, ma non solo. James Franco viene rocambolescamente accusato di molestie poche ore dopo aver vinto il Golden Globe come miglior attore in una commedia, per il suo The disaster artist, film che peraltro sfotte perbene la pompa magna di Hollywood. Accuse tra le più raffazzonate della storia, ma tant’è, ci sarà il famoso giudice che giudicherà (sempre che si apra qualche processo visto che fino ad ora siamo a zero). Franco allora viene cancellato da ogni possibile nomination (film, regia, attore) e la sua commedia si accontenta di uno strapuntino tra i cinque nominati per la miglior sceneggiatura non originale che tanto Franco non ha firmato. Davvero? Ma siamo arrivati sul serio a questo punto?  Sì, e visto che un paio di anni fa tutto il comparto degli artisti afroamericani, che non sono pochini, si era leggermente incazzato perché non c’era nemmeno un attore o un tecnico afroamericano tra i nominati agli Oscar, meglio provvedere con gli interessi.

I votanti dell’Academy, cioè l’industria del cinema stessa, riesuma un horror stupidino e ben poco memorabile come Get Out, un pasticciaccio brutto su quanto possano essere cattivi i bianchi nel tenere sottomessi i neri, e gli si assegna quattro nomination pesantissime: regia(!), film (!!), sceneggiatura originale (chiamate un’ambulanza) e l’apoteosi con il povero nerissimo Daniel Kaluuya tra i cinque migliori attori di fianco a Gary Oldman che rifà Churchill. Se qualcuno pensasse male non ha ancora visto il carico da dieci. Due paroline solo: Timothée Chalamet. È il ragazzino protagonista del film di Luca Guadagnino. Bravissimo in Call me by your name per carità, ma nemmeno fosse Shirley Temple. 22 anni e una carrierina timida da festa in parrocchia, pardon in sinagoga, che se lo sa Leo DiCaprio, a cui è stato detto di maturare secoli per guadagnarsi le nomination e poi l’Oscar, se lo mangia per traverso. Eppure Chalamet è quel ragazzino che dal basso della sua inesperienza ha scritto un post pubblico dove ha spiegato di donare in beneficenza (tra cui Time’s Up, sorella di MeToo) il suo cachet guadagnato a recitare per il nuovo film di Woody Allen, A Rainy day in New York. Già Allen il pedofilo a scoppio ritardato. O meglio il presunto pedofilo di cui si sa da più di vent’anni. Le stesse accuse provenienti dalla famiglia Farrow che rispuntano come funghi nel post Weinstein, tanto quanto si affollano gli attori che hanno girato film con Allen pronti a pentirsi di aver fatto film con lui e di donare anche loro i dollari provenienti dai relativi cachet. Prima o poi ad Allen qualcosa di brutto doveva accadere. Perché Hollwyood l’aveva snobbata perbene non apparendo alla cerimonia di premiazione sia quando vinse l’Oscar come miglior regista, per il miglior film e sceneggiatura nel 1978 per Io & Annie; sia nell’86 per la miglior sceneggiatura di Hannah e le sue sorelle. Allen una volta spiegò che doveva suonare al Michael’s Pub come di consueto, un’altra volta che si era addormentato presto e non aveva nemmeno acceso la tv. Ecco, di fronte al perbenismo e all’ipocrisia hollywoodiana, di fronte a questo deprecabile moralismo, un pisolino davanti alla tv ai prossimi Oscar dovremmo schiacciarlo sul serio.

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