La nascita di un figlio è la quintessenza del compromesso, concentrata nel capire cosa conservare della nostra identità prima di averlo e il nostro inarrestabile divenire come individui e genitori. Compromesso è una parola un po’ demodé, si potrebbe usare equilibrio, buonsenso, ma dentro quel termine un po’ ruffiano ci sta la sfumatura di rinuncia e sacrificio con la quale, quando si diventa genitori, si deve venire a patti.

Con figli piccoli non si bazzicano più i locali fino all’alba, l’aperitivo inizia alle sei e al ristorante si prenota per le sette. Viaggiare è un altro capitolo della dicotomia tra quello che siamo stati, magari viaggiatori con zaino in spalla su autobus sgangherati verso ostelli a camerate miste, e una nuova versione meno avventurosa e più borghese.

E’ impossibile stabilire quale aspetto della vita precedente si debba trattenere, ognuno ha principi e fissazioni diverse, quello che definisce me non caratterizza un altro. A dispetto delle centinaia di libri scritti sulla genitorialità, non esiste un manuale su come restare fedeli a se stessi dopo l’arrivo dei figli. La capacità di non perdersi è un requisito indispensabile per non smarrire la propria bussola interiore e non essere inghiottiti dalla frustrazione. Identificare quello che ci soddisfa e provare a realizzarlo fornisce anche un ottimo esempio di appagamento ai figli che crescono.

Nel mio caso, continuare a viaggiare è stato un punto fermo dal quale non mi sono voluta separare dopo i tre figli. Siamo appena tornati da un viaggio in Vietnam di tre settimane e non mentirò, ci sono stati momenti di grande spossatezza, momenti in cui ti chiedi se quel resort all-inclusive non fosse alla fine così male. Puoi incappare in istanti di panico quando tuo figlio di tre anni, mentre sconvolta dal jet lag ti aggiri per la stanza d’albergo come Martin Sheen all’inizio di Apocalypse Now, scompare nel giro di trenta secondi e lo ritrovi sei piani più giù alla reception in mutande.

O quando pensando di ingoiare un pomodoro si ritrova in bocca una bomba piccante. Anche le venti ore di treno sembravano un’idea più geniale mentre le prenotavi dal computer di casa e le battaglie quotidiane con le tue figlie per andare oltre il solo riso al vapore ti lasciano un gusto amaro in bocca. Sento spesso genitori pianificare le proprie vacanze in base alle esigenze dei figli, a volte molto piccoli, che alla fine trascorrono le giornate nei mini club degli alberghi. Non sono contraria al baby-parking vacanziero tout court, ma mi domando se sceglierlo sia il reale desiderio di entrambi i genitori. Mi sembra che sovente le loro aspirazioni passino in secondo piano per assecondare le esigenze di intrattenimento (o presunte tali) dei bambini.

In tutta onestà credo che i figli, nel momento in cui stanno con i genitori e vengono esposti a esperienze nuove (non necessariamente dall’altra parte del mondo) abbiano tutto ciò che gli occorra per divertirsi. E quei genitori che hanno ancora itchy feet non dovrebbero precludersi qualcosa di voluto per senso di abnegazione. Rinunciare a un desiderio impetuoso è un po’ come morire.

Sono tre mattine che i bambini si svegliano alle quattro, per i loro corpicini è mattina inoltrata. Anche io sono in dormiveglia ma senza la loro pressante presenza sarei stata a poltrire fino all’alba. Smaltire il fuso orario è causa di nevrosi cosmica, capace di ridurti a un livello di tolleranza pari a quello della signora Spezzindue di Matilda.

Poi però ti accorgi che anche nella normale routine la vita non è più semplice, non dormi più a lungo, loro non sono meno esigenti, non hai più tempo per te stessa. Tanto vale mettersi a cercare la prossima destinazione sull’atlante.

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