“Lo rivendico e ritrovandomi nella situazione di vent’anni fa rifarei la stessa cosa. Non sono mai stato vicino a quel partito, ma all’epoca è stato l’unico a voler appoggiare la mia battaglia per riabilitare Pasolini. Se mi fossi affidato alla sinistra mi avrebbero sbattuto la porta in faccia“. Per Tommaso Cerno, ex condirettore di Repubblica adesso in corsa per il Pd al Senato, quella vecchia candidatura con An (alle comunali di Udine del 1995) è una medaglia, un passaggio cruciale perché a lui, studente al primo anno di università, “la destra accese la scintilla della difesa dei diritti, di cui da allora mi sono sempre occupato battendomi proprio contro la destra reazionaria“. Ma inevitabilmente, ora che da giornalista impegnato diventa paladino dem dei diritti civili, quella scelta va spiegata e messa in prospettiva. Per arrivare a oggi, alla decisione di “metterci la faccia perché non mi basta più stare in tribuna a fischiare l’arbitro”. E di farlo “non perché mi ha convinto Renzi ma per la parola partito“. Perché “in Italia la democrazia è bella ma la politica è considerata brutta e allora ci si chiama “movimento“, “lega“, “forza”. Solo uno si chiama partito, che è dove si prende parte, non c’è accordo su tutte le posizioni, c’è lo scontro democratico”.

Torniamo al 1995. “A Udine”, racconta Cerno a ilfattoquotidiano.it, “mancava da 40 anni un teatro e io, ventenne radicale pannelliano e già omosessuale dichiarato, in vista delle amministrative presentai a tutti i partiti un progetto culturale che prevedeva di farne realizzare uno a Gae Aulenti, nel centro della città, e dedicarlo a un friulano il cui nome allora in Friuli non si riusciva nemmeno a pronunciare. Suo fratello era morto a Porzûs, lui era stato cacciato dal Partito comunista (per “indegnità morale”, ndr)… Per me era il momento di far vedere che il Friuli gli chiedeva scusa“. Ma? “Ma tra il Pds, il Partito repubblicano e gli altri, solo An mi disse sì. Il mio amico Daniele Franz, nonostante negli anni del liceo fossimo su fronti opposti nelle battaglie studentesche, mi disse che per loro Pasolini era un simbolo che con tutte le sue contraddizioni e la sua voce unica andava recuperato”. Così si candidò. “Da indipendente. Ma vivevo a Venezia, non partecipai alla campagna. Vinse il centrosinistra. Che fece il teatro e lo dedicò a Giovanni da Udine, un allievo della scuola di Raffaello che nessuno conosceva. In compenso quella battaglia servì perché qualche anno dopo Cervignano chiamò Pasolini il suo nuovo teatro e dopo ancora fu un sindaco leghista (Sergio Cecotti, ndr) a dedicare un viale di Udine allo scrittore. Un po’ più di niente”.

Comunque, “in quel momento ho capito che tra l’ideale e la possibilità di fare ci deve essere un percorso, e ho aderito pian piano non alla sinistra ma a un’idea del mondo in cui i diritti civili sono centrali”. “Organizzai il Gay pride a Venezia perché lì tutto il mondo l’avrebbe guardato… anni dopo da giornalista raccontai di Eluana Englaro, perché nel frattempo Udine si era ricordata di essere la città di Loris Fortuna ed è diventata la città che ha accompagnato Eluana alla sospensione delle terapie mentre da destra Berlusconi diceva che avrebbe potuto rimanere incinta“. Quanto al periodo da addetto stampa al ministero del commercio estero, con il sottosegretario Udeur Mauro Fabris, “ero un giornalista disoccupato, feci il mio lavoro”.

Poi la carriera giornalistica, L’Espresso, il Messaggero Veneto, Repubblica. “Ma di fronte a questa Italia che negli ultimi due anni è cambiata in peggio, ha visto tornare il maschilismo, il conformismo, la paura della politica come confronto… ho bisogno di metterci la faccia, nel segno di quei diritti che su alcuni fronti sono aumentati ma su altri sono diminuiti, se abbiamo perso il diritto di andare a divertirci al Bataclan“. Così andrà in Parlamento, con il partito “che ha il coraggio di chiamarsi con il suo nome”. La legge sulle unioni civili è stata una svolta? “Ci siamo arrivati in ritardo di 30 anni e non è la legge migliore del mondo, ma Renzi ha avuto il merito di essere stato il primo premier a porre la fiducia su un tema che riguardava diritti civili. Il governo Prodi, che era composto da persone come Bersani o D’Alema che oggi pontifica sui diritti civili, propose che i gay si sposassero spedendo una raccomandata a casa del compagno. Per Prodi, per quella sinistra che oggi si riconosce in Leu, non mi dovevo sposare in Comune di fronte all’ufficiale di stato civile ma all’ufficio postale: così funzionavano i Dico“. Quanto allo stralcio della stepchild adoption, “ovviamente non possiamo aspettare altri 30 anni, dobbiamo legiferare per far sì che i figli di una coppia gay siano figli di entrambi. Ma, per come era scritto, quell’articolo della legge avrebbe creato discriminazione perché riconosceva solo la genitorialità ma non la formazione di una nuova famiglia con zii e nonni”.

E la magra figura sullo ius soli? “Per me va ovviamente riconosciuta la cittadinanza a persone nate nel nostro paese da immigrati che lavorano secondo leggi dello stato, lavorano e pagano tasse. E ne sono convinto per ragioni diverse da quelle che si attribuiscono alla sinistra: la cittadinanza per me è l’attribuzione di un dovere, più che un diritto. E lo ius soli, peraltro non temperato come prevedeva il nostro ddl, ce l’hanno i Paesi con le regole più rigide in campo di immigrazione come gli Usa. Gli italiani hanno paura non del colore della pelle ma di uno Stato che non sa gestire la situazione: su questo la destra costruisce la campagna elettorale. Quindi è una battaglia da fare e da spiegare. Come quella per Pasolini”.

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