La farsa delle elezioni più pazze che il calcio abbia mai vissuto inizia con una standing ovation. Quella per Carlo Tavecchio, il presidente passato alla storia per non aver qualificato per la prima volta la nazionale ai mondiali, e acclamato come uno statista al momento dell’addio. E finisce senza un successore: la Federazione è decapitata, arriva il commissario. Ha vinto Giovanni Malagò. Il presidente del Coni è l’unico trionfatore di una giornata surreale, vissuta per ore tra trame, riunioni segrete nelle toilette o nelle suite dell’Hotel Hilton di Fiumicino, accordi trovati e poi rinnegati. L’ultimo, quello che fa saltare il banco, è quello tra Cosimo Sibilia, numero uno della Lega Dilettanti, e Gabriele Gravina, capo della Lega Pro. Il primo era pronto ad ammettere la sconfitta e concedere la presidenza al secondo, in cambio di una poltrona importante nel governo. I due si erano anche stretti la mano, ma gli alleati (allenatori, arbitri, pure la parte della Serie A che ama definirsi “riformista”) ha detto di no. A dimostrazione che qualcuno ha sempre ammiccato all’ipotesi del commissariamento, e forse aspettava solo l’occasione giusta per spalancare le porte al Coni (e al ministro dello Sport, Luca Lotti). A quel punto Sibilia ha dato mandato ai suoi di votare scheda bianca, paralizzando le elezioni. Manca solo la conferma dell’urna: se nelle scatole Gravina non raggiungerà il 50,1%, l’assemblea elettiva sarà fallita. E Malagò potrà finalmente prendersi il pallone, come sognava da anni.
Arrivati a questo punto, nessuno – persino tra i riottosi proprietari del pallone – può dargli torto. Il calcio italiano ha toccato il punto più basso della sua storia, almeno a livello politico. Sul campo era già stato raggiunto con la mancata qualificazione ai mondiali, disfatta che avrebbe dovuto dare il là alla rifondazione. Invece al termine di una campagna elettorale passata a discutere solo di poltrone, i tre candidati non sono riusciti a trovare la quadra. Ci hanno provato in tutte le maniere, fino all’ultimo momento, tentando tutti gli incastri possibili: Tommasi con Gravina, poi Sibilia con Tommasi, infine Sibilia con Gravina. Niente da fare. Centinaia di delegati, anonimi personaggi in cerca d’autore, o almeno di un presidente, ad attendere direttive. E tre, quattro potenti a tramare di nascosto e a promettersi favori, tra cui l’immancabile Claudio Lotito, meno straripante del solito forse perché sentiva aria di sconfitta, o semplicemente perché appagato dalla candidatura alle politiche appena incassata da Forza Italia. Tutto inutile.
Alla fine tutti danno la colpa a tutti. La Lega Pro se la prende con i calciatori: “Si sono intestarditi, non ci si comporta così”. Sibilia è furibondo con Gravina: “Avevamo fatto un passo indietro per il bene del calcio, poi hanno cambiato idea senza nemmeno degnarsi di dirmelo di persona”. Per Damiano Tommasi, dopo essersi illuso per una notte di riportare “il calcio ai calciatori” ed essersi svegliato al mattino con l’ennesima pugnalata alle spalle di Renzo Ulivieri (gli allenatori, dopo aver giurato e spergiurato sull’alleanza, hanno votato per Gravina), tutto sommato il nulla di fatto è il male minore: “È una sconfitta per tutto il sistema, ma a questo punto è giusto che ci metta mano qualcuno dall’esterno”. E così sarà. Lo conferma anche l’urna: Gravina si ferma al 36%, troppo poco per essere eletto, figuriamoci per governare. “L’assemblea non ha prodotto nessun risultato. Dovremo ricominciare da capo”, dice il povero Pasquale De Lise, il vegliardo presidente d’assemblea, stravolto dalla giornata bestiale dei padroni del pallone. Poverino, a 80 anni suonati e dopo 10 ore estenuanti di elezioni, non ha capito che il calcio non voterà più. Da mercoledì (il Coni ha già in calendario una giunta straordinaria) inizia l’era Malagò.