Il processo alla stampa prima di quello alla ‘ndrangheta: gli avvocati vogliono controllare il lavoro dei giornalisti. Mentre il processo Aemilia si avvicina alle arringhe finali, cresce la tensione in Emilia Romagna e gli avvocati difensori riuniti nelle Camere Penali hanno annunciato la nascita di
un Osservatorio sull’informazione giudiziaria. Alcuni di loro difendono imputati del maxi
processo per ‘ndrangheta e l’iniziativa parte da Modena e Reggio Emilia, con la benedizione delle
Camere Penali Unite a livello nazionale. “L’informazione”, scrivono in una nota, “spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante”. Silenzio assoluto dalla politica locale e nazionale, che non commenta. Mentre Ordine e Sindacato dei giornalisti da Roma e da Bologna replicano definendo preoccupante l’iniziativa “dal sapore intimidatorio”, resa nota proprio nei giorni in cui si apprende che la ‘ndrangheta pensava di uccidere un giornalista che dava fastidio agli affari illeciti della cosca emiliana: “Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significativa la sensibilità degli avvocati”. Il riferimento è alla testimonianza in aula del 16 gennaio scorso, quando il collaboratore Vincenzo Marino in videoconferenza raccontò che nel 2003 l’imprenditore edile Antonio Muto, residente a Gualtieri sulla sponda destra del Po, gli parlò di un giornalista che rompeva le scatole e si ipotizzò di eliminarlo. In quel periodo la stampa locale si occupava delle escavazioni abusive di sabbia nel grande fiume che portavano tonnellate di materia prima a basso costo alle imprese della ‘ndrangheta.
Nel corso di Aemilia più di una volta avvocati difensori e loro assistiti hanno cercato di mettere in discussione i giornalisti che seguono le udienze e il diritto di cronaca. La Camera Penale di Bologna aveva già aperto un Osservatorio sui media e “censurato” il 24 luglio 2017 alcuni articoli con un esposto all’Ordine dei Giornalisti. Rispondeva così a una “richiesta urgente di intervento pubblico” ricevuta da un proprio iscritto, l’avvocato Stefano Vezzadini, difensore di Gianluigi Sarcone e Gianni Floro Vito. E’ l’avvocato che aveva detto in aula, qualche giorno prima: “Lo vediamo tutti i giorni, i giornali anche di questo processo scrivono cose non vere. L’ultima l’hanno scritta ieri l’altro”. Quali fossero queste cose non vere, e su quale testata, nessuno lo ha mai spiegato in udienza e neppure nell’esposto che l’Ordine dei Giornalisti ha respinto. Dopo Vezzadini quel giorno in aula intervennero i detenuti in coro da dietro le sbarre segnando i tre giornalisti presenti e gridando loro: “In galera!” Ma già qualche mese prima, nel gennaio 2017, Sergio Bolognino a nome degli imputati in carcere si era fatto portavoce di una singolare richiesta al Tribunale: fuori la stampa e udienze a porte chiuse. In subordine proposta ancora più singolare: al mattino prima del dibattimento leggiamo gli articoli per valutare la correttezza di ciò che è stato riportato.
Il processo alla stampa prima del processo alla ‘ndrangheta, dunque. E non molto diverso appare il senso dell’Osservatorio della Camera Penale modenese istituito, dice la presentazione, “per verificare le modalità con le quali vengono riportate dagli organi di stampa le notizie di cronaca giudiziaria”. A compiere questa verifica saranno quattro avvocati: Ricco, Rossi, Caricati e il referente per la Camera Penale, l’avvocato Alessandro Sivelli, già difensore di elementi di vertice nella cosca originaria di Cutro: da Francesco Grande Aracri, fratello di Nicolino, ad Angelo Salvatore Cortese prima che diventasse collaboratore di giustizia, al presunto capo ‘ndrangheta di Brescello Alfonso Diletto condannato nel rito abbreviato a 14 anni di carcere. Nel marzo 2016 l’avvocato Sivelli difendeva l’allora capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale a Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, condannato poi a quattro anni di reclusione nell’appello del rito abbreviato di Aemilia. Disse allora l’avvocato, riferendosi ad alcune notizie uscite sui giornali: “Si è deciso di celebrare il processo sulla stampa anziché nelle aule del tribunale”. Il suo Osservatorio nasce insomma già ben orientato.
La replica dei giornalisti, firmata dal segretario nazionale FNSI Raffaele Lorusso e dal presidente nazionale dell’Ordine Carlo Verna, assieme ai rispettivi segretario e presidente regionali Serena Bersani e Giovanni Rossi, definisce “grave e intollerabile l’affermazione che i media vengano strumentalizzati dall’ufficio del pubblico ministero e condizionino l’imparzialità dei giudici. Più che di Osservatori su chi racconta e su come vengono svelati fatti criminosi sottaciuti per anni in Emilia Romagna, sarebbe forse opportuno dotarsi di strumenti per mettere immediatamente a fuoco, se non per prevenire, tali delitti”.
Condividono questo giudizio la segreteria regionale della CGIL e le Camere del Lavoro di Reggio e
di Modena, che aggiungono in una nota stampa: “Non riconosciamo come legittimo qualsiasi
tentativo di mettere in contrapposizione libertà e diritti fondamentali sanciti dalla nostra Carta
Costituzionale. Non si fa una migliore e giuridicamente corretta difesa degli imputati limitando la
libertà d’informazione”.
Ma lo scontro è solo all’inizio. Il presidente della Camera Penale di Modena, l’avvocato Guido Sola, replica con nuove accuse prive di riferimenti circostanziati: “Vengono passate dalle procure e dalla polizia giudiziaria atti e notizie dell’indagine in violazione del segreto istruttorio; il processo mediatico spesso inquina e travisa il processo vero, diventa uno spettacolo e come tale non informa correttamente; viene dato più risalto alla fase delle indagini che alla fase dibattimentale; l’informazione di garanzia viene equiparata ad una condanna; non si può negare che alcuni magistrati hanno costruito con i processi mediatici la loro carriera politica”. Il presidente della Camera Penale di Reggio Emilia, avvoccato Nicola Tria, si è immediatamente accodato annunciando a sua volta la nascita di un Osservatorio provinciale e dicendo di condividere “ogni parola e ogni virgola” di quanto scritto dai colleghi modenesi. Le cui conclusioni sembrano non ammettere dubbi: “Cari giornalisti, non potete non condividere con noi che tutto questo può condizionare anche l’imparzialità del giudice”. In realtà si può, anzi si deve, non condividere con l’avvocato Sola una tesi che getta fango non solo sui giornalisti ma anche su due attori fondamentali del processo penale: pubblico ministero e giudice.
Sull’imparzialità dei giudici farebbero bene le Camere Penali, prima di lanciare ombre su possibili condizionamenti, a riascoltarsi la motivazione con la quale il collegio giudicante di Aemilia il 19 gennaio 2017 dichiarò inammissibile per carenza dei presupposti giuridici la richiesta di esclusione dei giornalisti dalle udienze. Il presidente Francesco Maria Caruso ricordò allora l’art. 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero e di stampa definendolo “Pietra miliare” della nostra democrazia e si profuse in una difesa orgogliosa delle garanzie di imparzialità e correttezza offerte a tutti i protagonisti della vicenda giudiziaria dall’aula del Tribunale e dal contraddittorio tra accusa e difesa. “Se qualcuno adombra l’ipotesi che gli articoli di stampa possano condizionare i testimoni e addirittura i giudici”, disse in sostanza, “sappia che quest’aula è in grado di valutare l’attendibilità dei primi e di garantire l’imparzialità dei secondi. Anche qualora i testimoni venissero influenzati o condizionati da elementi ben più efficaci e preoccupanti di un articolo di giornale”. Lasciando intendere che spesso sono la paura o le minacce di morte a mettere il bavaglio ai testimoni in un processo di mafia, come si è visto più volte pure in Aemilia.
Le Camere Penali di Modena e di Reggio Emilia, dopo l’attacco, hanno anche teso la mano all’Ordine dei Giornalisti con la proposta di un confronto pubblico su questi temi, nel mese di marzo, da tenersi proprio nell’aula bunker del Tribunale e proprio mentre Aemilia vivrà la sua fase
più calda. Dai giornalisti che seguono il processo per ora la riposta è una sola: “No”.