D’accordo, siamo della “lontana” Lituania, ma parliamo dopotutto di comunicazione e di fotografia. Con tutte le connessioni che possono avere nella società e nella cultura.
Brevemente i fatti: nel 2012 un’azienda lituana di vestiti lancia una campagna pubblicitaria nelle cui foto appaiono modelli che chiaramente alludono, o meglio impersonano, Gesù e Maria; i tatuaggi convivono con le aureole e si pesca nell’immaginario collettivo, con visioni che riconducono all’iconografia religiosa (una foto ammicca alla Pietà, per esempio), mentre gli slogan che le accompagnano giocano sui nomi con le esclamazioni: “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!“.
Come prevedibile s’innesca subito una reazione a catena di proteste che porta una specie di gran giurì lituano (dove figura anche la conferenza episcopale lituana) a giudicare tale pubblicità irrispettosa della religione e della morale pubblica, infliggendo una pena devastante per i bilanci dell’azienda: 580 euro. Come si vede, la vicenda non manca di aspetti anche grotteschi e surreali. Ed è anche leggermente surreale, forse, che oggi se ne debba occupare la Corte di Strasburgo, la quale ribaltando il giudizio dei lituani afferma come la pubblicità in questione “non sembra essere gratuitamente offensiva o profana” e “non incita all’odio”, chiedendosi dunque dove stia l’offesa alla pubblica morale. E’ chiaro che prendere le misure e giudicare la sensibilità delle singole persone è impossibile nonché ingiusto, il rispetto prima di tutto. Ma è anche evidente come quelle foto – al netto della tematica – siano in realtà innocue, tranquille e perfino dolci. All’acqua di rose. Forse ci si dimentica che abbiamo visto ben altro e ben prima.
Il caso vuole – se il caso esiste – che solo pochi giorni fa si è inaugurata al Castello Aragonese di Otranto una grande mostra retrospettiva di Oliviero Toscani, e già avete capito dove andiamo a parare (la mostra, dal titolo Più di cinquant’anni di magnifici fallimenti, è visibile fino al 31 marzo 2018).
Tra le otre 100 immagini esposte, vi è anche quella che nel 1973 accompagnò la campagna pubblicitaria dei jeans “Jesus” (sempre abbigliamento, e già il marchio la diceva lunga) con un trionfante lato B della modella Donna Jordan (allora fidanzata di Toscani) e lo slogan “Chi mi ama mi segua” (voluto da Emanuele Pirella). Stiamo parlando di 50 anni fa e tutto, dalla foto al messaggio, era infinitamente più dirompente, più scandaloso, più “inaccettabile”.
E invece tutto fu sostanzialmente accettato: se escludiamo qualche articolo dell’Osservatore romano e voci isolate di politici e benpensanti, di fatto non successe nulla. Oggi quella foto e quella campagna, oltre che nelle mostre di Oliviero Toscani, sono presenti nei manuali e nei libri di testo delle scuole di comunicazione e di marketing.
E sono un pezzo di storia del costume, della cultura e della società italiana: non si tratta di farsele piacere a tutti i costi né di essere pro o contro, ma solo di prenderne atto. Dunque, all’alba del 2018, tutta la vicenda lituana appare la classica tempesta in un bicchiere d’acqua (fermo restando che, anche in queste cose, un Paese potrebbe legittimamente invocare la non ingerenza di altri, lontani e diversi per cultura, tradizioni, religione).
Da ultimo, giacché siamo finiti in una macchina del tempo impazzita che ci sballotta avanti e indietro nei decenni, lasciamo la conclusione a chi, in qualità di “profeta”, dal passato vedeva il nostro presente. Pier Paolo Pasolini nel 1973 scrive, a proposito della pubblicità dei Jesus Jeans:
Sembra folle, ripeto, ma il caso dei jeans “Jesus” è una spia di tutto questo. Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando, per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano – probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi – di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale. C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un «nuovo valore» nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.