Erano usciti allo scoperto firmando un documento pubblico per il “no”. Mentre girava il gran vortice del referendum che avrebbe spazzato via Renzi da Palazzo Chigi. Erano in dieci, deputati e senatori del Pd. Pochi rimetteranno piede nel nuovo parlamento. Non tornerà certo Walter Tocci, l’ex vicesindaco con Rutelli che si era levato a voce critica dentro il Partito renzianizzato. Non Luigi Manconi, sociologo e senatore che era da una vita in Parlamento e al quale fatale sarà proprio quella firma. Della fronda faceva parte anche Massimo Mucchetti, altro senatore in rotta con Renzi che, senza giri di parole, al Fattoquotidiano.it spiega così la sua mancata candidatura: “Oggi nel Pd non ci si candida: si dà al segretario o alla corrente la disponibilità a essere messi in lista e loro scelgono. Ma difficilmente troverete candidati che si sono espressi contro quell’appuntamento cruciale”. Del gruppetto facevano parte anche Lucrezia Ricchiuti, Nerina Dirindin e Paolo Corsini che si sono sono esclusi da soli passando a LeU o Mdp. Chi resta dei dieci frondisti di allora? Proprio nessuno, mentre entra nelle liste il gran promotore del “Sì”, il costituzionalista Stefano Ceccanti.
Dell’ennesima spaccatura in area dem ha parlato il ministro Andrea Orlano, tornando più volte sulla spinosa questione di scelte riconducibili a criteri di fedeltà piuttosto che di competenza. “Dove ero candidato l’ho scoperto alle 4 del mattino”, dice a margine di un convegno del Garante dei detenuti. “Ho letto che questa sarebbe una punizione per il mio mancato impegno al referendum, mi auguro che qualcuno lo smentisca perché questa sarebbe una cosa non rispettosa del pluralismo. Io sono stato uno dei ministri che ha fatto più campagna per il referendum“, ha aggiunto l’esponente del Pd, sottolineando: “Pensavo di poter essere utile anche in un collegio uninominale in cui dare un contributo”.
Di sicuro se il criterio di chi è dentro e chi fuori torna indietro di un anno, alla data del 4 dicembre 2016, il Partito Democratico ha un problema, un regolamento di conti che ha aleggiato sulle liste e ora viene fuori a mezzo stampa da chi ormai è (fatto) fuori. Non le manda a dire, ad esempio, un escluso eccellente come Nicola Latorre. Se ne parla anche perché è un fedelissimo di Marco Minniti e viene data per certa l’irritazione del ministro. Così il Corriere lo interpella sulle ragioni ragionevoli di questa esclusione non proprio indolore per gli stessi renziani, oggi alle prese con una polemica che fa apparire il Pd più piccolo ed isolato, proprio per effetto di quelle candidature che a parole Renzi indicava come fonte d’aria nuova, emblema di competenza, risacca di una società civile che si rende disponibile. Il racconto degli esclusi è assai diverso e ruota attorno alla parola “fedeltà”. Che proprio nel referendum costituzionale ha avuto la sua prova più dura, irrevocabile, definitoria. Ecco allora Latorre evocare dalle pagine del Corriere la fedeltà: “Al netto di alcune scelte appare evidente che la logica della spartizione sia prevalsa. È stato seguito quasi esclusivamente il criterio delle fedeltà, piuttosto che quello della competenza e della sensibilità dei candidati sui principali problemi del Paese”. E ancora: “Tutti avevano dichiarato di volersi sottrarre al partito dell’uomo solo al comando e invece è scattato il bisogno di irregimentare le rappresentanze parlamentari”.
Che il referendum sia la prova di fedeltà per le liste, forse non l’unica, è certificato da alcune scelte locali piuttosto controverse. In Campania attorno al nome di Franco Alfieri, che fu al centro del caso “fritture” da offrire proprio nella campagna per il “sì” al referendum. Oppure Piero De Luca, altro pro referendum che si è speso molto sul territorio e viene premiato alla grande, infoltendo la categoria dei “figli di” che a sinistra fa ancora storcere qualche bocca. Per la vittoria del “Sì” De Luca junior aveva fatto il comitato Salerno. In cambio di? Un posto sicuro alla Camera, collegio Campania 2. Per contro sono rimasti fuori nomi importanti e volti-bandiera: tra gli altri Giusi Nicolini, ex sindaco di Lampedusa ed emblema dell’accoglienza ai migranti, e Sergio Lo Giudice, già presidente nazionale dell’Arcigay.