Lascia stare i santi, ma gioca pure con Mussolini. Finalmente il cinema italiano infrange un tabù decennale. Sono tornato, il nuovo film di Luca Miniero, pone al centro della scena il ritorno surreale e grottesco del Duce mescolandolo agli umori politici dell’oggi. Aprile 2017, Roma, quartiere Esquilino. Dopo essere caduto dal cielo come un meteorite, Mussolini riemerge da dietro una lapide antica. Prima una mano, poi i lembi di una divisa strappata, infine la nuca rasata. Ad accoglierlo una coppia di giornalai gay (“invertiti”) e un gruppo di bambinetti colored che giocano a pallone ai giardinetti (“balilla Totti!”).
A filmarne la sagoma in campo lungo è lo spiantato e velleitario giornalista Canaletti che credendolo un attore comico che rifà il verso al Duce sente di aver professionalmente svoltato. Il ragazzo propone così ai dirigenti della tv per cui lavora un documentario dove registrerà e accompagnerà Mussolini in giro per l’Italia, e in cui l’ex capo supremo del fascismo ascolterà gli umori del suo popolo con l’obiettivo di riconquistarlo. Solo che dopo aver raccolto testimonianze, perlopiù vere e bonariamente inquietanti dalla viva voce di cittadini italiani, e averle lanciate con un successo incredibile su Youtube, quando il Duce farà capolino negli studi tv diventerà immediato protagonista di uno show tutto suo che abbatterà ogni record di share.
Strutturato su più registri comici (vera forza del film) e su una pratica di regia semidocumentaristica che invita ad una osmotica e congegnata sovrapposizione con lo sguardo spettatoriale, Sono Tornato ha un pregio altamente spericolato: far ridere senza freni di Mussolini nel 2017. Perché in quella maschera della storia, che nella nostalgia italiana non sembra essere mai stata pacificata e risolta, in quel pennacchio penzolante del fez di guzzantiana memoria, Miniero e Nicola Guaglianone alla sceneggiatura filtrano mirabilmente la pancia del nostro paese con una dose di feroce politicamente scorretto. Già, perché di Mussolini si ride. E parecchio. Ad ascoltarlo in quel suo peregrinare tra Villa Torlonia con culo nudo e scolaresca imbarazzata a scoprirlo, e in una lavanderia dove due signore indiane non gli vogliono lavare le mutande sporche dal 1945, si parte in quarta con il tono da commedia degli equivoci temporali e culturali.
Poi il film assume subito l’andazzo spiritoso da buddy movie, con la coppia Canaletti/Mussolini sorpresi perfino nell’intimità di una stanza d’albergo condivisa per la notte, con il Duce che gli ruba lo smartphone inviando al suo posto un “cablogramma” spinto per conquistare una ragazza, con l’invito finale al “camerata” di “stare attento alla sifilide” e di “indossare una vescica di bue”. Impossibile resistere alla raffica di battute dei primi trenta minuti. Troppo derisorie le gag che sbeffeggiano il goffo Duce alle prese con l’oggi. Ulteriore carpiato comico. Mussolini finisce per diventare un improvvisato entertainer tv. E qui Miniero/Guaglianone si superano costruendo una fitta trama a supporto dei monologhi del protagonista, orientati su uno humor nero e irriverente che assume i connotati esagerati e corrosivi da stand-up comedian alla Lenny Bruce.
La commedia perfetta è servita. La risata ora diventa “per” e “con” il Duce. Specchio di uno strapiombo morale possibilista schiavo del nostro refrain quotidiano del “ma quando c’era lui”, condito con le bonifiche e i treni in orario. Roba che nel testo del film abilmente non viene inclusa ma sotterraneamente evocata in quelle interviste raccapriccianti in mezzo alla strada, come nel senso di alcune folgoranti battute truci sui migranti del Mussolini show, o anche nelle risposte riservate alle mille interviste concesse ai talk che il nuovo protagonista comico/politico offre in pasto al vero Mentana o al vero Cattelan di turno (“Che paese ha trovato al suo ritorno?”, e lui: “La Rhodesia settentrionale e se non ha capito bene dico il Congo, la Nigeria”) per far schizzare gli ascolti oltre ogni record precedente. Inutile però fare il confronto con l’originario Hitler di Lui è tornato, diretto da David Wdendt e tratto dal libro di Timur Vermes. Tre quarti di trama può sovrapporsi come carta carbone, soprattutto nel turning point del cagnetto ucciso dal Fuhrer, qui da Mussolini. Solo che oltre a distanziarsi oggettivamente dall’originale nell’ultima parte di film, Miniero e Guaglianone aggiornano la struttura generale al caso particolare Italia, con una manciata di tormentoni riusciti (“sembra Bisio”) riferiti pure ad un certo milieu cinefilo (“vincerò Berlino o al massimo Locarno”), e una disgraziata peculiarità storica italiana con cui punteggiano l’intero testo dall’inizio alla fine senza mai cadere nel didascalico. Aiuta, in questo senso, la chimica straordinaria della coppia comica protagonista: Frank Matano e Massimo Popolizio. Il primo è un corpo molle, vittima burrosa e strattonata del corso degli eventi.
Il secondo, felice intuizione generale del progetto, fa rivivere il Duce non tanto in un’esasperata mimetizzazione tutta trucchi e silicone (alla Gary Oldman per Churchill ne L’ora più buia, per intendersi) ma ne riattualizza l’idea generale, la presenza sinistra, rievocandone mirabilmente la retorica dei tratti distintivi (postura e linguaggio) con la sintesi suprema della silhouette di spalle a figura intera con nuca rasata gorillesca che talvolta sbatte contro l’obiettivo della macchina da presa. Così pur nella critica al solito meccanismo televisivo del cieco consenso di massa eterodiretto, è il ribaltamento dell’equilibrio della coppia di protagonisti a darci lo schiaffo che ci meritiamo. Ridere per un’ora e sentirsi improvvisamente in colpa. Non facciamo spoiler, ma l’ombra mefitica del passato criminale di Mussolini emerge storicamente per quello che è, senza sconto alcuno. Così il corteo d’epoca del Duce riabilitato dal pubblico televisivo tra le strade della Roma antica, braccia alzate per divertimento, pugni chiusi per sfregio e qualche corna, Emilio Fede che osserva ammirato e Gianni Alemanno che svicola dietro una colonna, assume le sembianze sinistre di un morbo dell’orrore che fa davvero spavento. Dal riso di gusto all’attonito stupore: come in una commedia riuscita dei grandi maestri del cinema italiano.