La decisione dell'Alta Corte replica quanto stabilito nel 2017 per Charlie Gard, il piccolo affetto dalla sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. Isaiah ha subito un grave danno cerebrale alla nascita. La madre: "Dire che è in condizioni troppo gravi per aver diritto di vivere non è giusto. Non sta ai giudici deciderlo"
Lasciare il bimbo attaccato alle macchine per la ventilazione artificiale che gli consentono di sopravvivere non è “nel suo miglior interesse”. Quindi il King’s College Hospital di Londra potrà staccare la spina a Isaiah Haastrup, 11 mesi, sulla base d’una decisione presa lunedì 29 gennaio dell’Alta Corte del Regno. Il verdetto del giudice relatore MacDonald replica quanto era stato stabilito a luglio 2017 per Charlie Gard, il piccolo affetto dalla sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. Il caso aveva spaccato l’opinione pubblica, che oggi torna a dividersi per Isaiah. Anche per il piccolo, che ha subito un grave danno cerebrale alla nascita, è il verdetto di un giudice, e non il volere dei genitori, a stabilire il confine fra la vita e la morte.
Un via libera al quale la mamma e il papà di Isaiah – Takesha Thomas e Lanre Haastrup, entrambi 36enni ed entrambi di origine afroeuropea – si oppongono disperatamente, invocando la prosecuzione di terapie palliative “di sostegno alla vita”. Così come non volevano arrendersi Connie e Chris, i genitori di Charlie, che si sono impegnati invano per mesi in una battaglia giudiziaria senza risparmio di riflettori, approdata di tribunale in tribunale fino a Strasburgo, contro il ‘non c’è nulla da fare’ decretato l’anno scorso dall’ospedale pediatrico Great Ormond Street.
E aggrappati alla speranza d’una qualche terapia sperimentale, alimentata fugacemente per ultimo dal luminare americano Michio Hirano, prima della sentenza definitiva e dell’epilogo: l’addio in un hospice, il 28 luglio 2017, a pochi giorni da un primo compleanno mai arrivato. Un finale che si prospetta ora anche per Isaiah. Il papà Lanre non si rassegna, malgrado la voce rotta, e si riserva con la compagna di “parlare agli avvocati prima di decidere il da farsi”. Ma Fiona Paterson, legale che ha rappresentato in giudizio l’ospedale, parla di elementi “schiaccianti” a favore dell’interruzione del trattamento, pur affermando che lo staff del King’s College capisce “come nessun altro il dolore e le sofferenze dei genitori”. Mentre il giudice MacDonald, dopo aver reso l’omaggio di rito “al coraggio” di Takesha e Lanre, mostra a sua volta di non aver dubbi. Giura di avere esaminato il caso “nel miglior interesse di Isaiah” e di essere convinto, pur “con profonda tristezza“, che non vi sia scopo ad andare avanti.
Il caso, come per Charlie, pare del resto a cavallo d’una linea di confine sottile fra etica, diritto e sentimenti: Isaiah, ammettono i medici che lo hanno curato da quando è venuto al mondo, ha una certo livello di coscienza, “sebbene molto basso”. Ma “non risponde agli stimoli“. “La mia opinione – ha tagliato corto uno degli specialisti chiamati a testimoniare in aula – è che la sua condizione non possa migliorare”. Parole che tuttavia non bastano alla madre. A una madre. “Quando gli parlo – racconta Takesha fra le lacrime – risponde, lentamente, aprendo un occhio”. “So che è un bambino che ha subito un danno, ma ha bisogno di amore e di cure – insiste quasi implorando – e io posso dargliele”. La sua conclusione non può essere, inevitabilmente, in linea con il senso pratico dei medici o con i rintocchi del martello della legge. “Dire che è in condizioni troppo gravi per aver diritto di vivere – arringa – non è giusto. Non sta a loro deciderlo”.