Il nome del tecnico romagnolo è legato indissolubilmente ai mondiali organizzati a Roma e a una cavalcata indimenticabile nonostante la mancata vittoria finale
È morto Azeglio Vicini, il ct azzurro di Italia ’90. “Notti magiche inseguendo un gol”. Il mondiale italiano, quello dell’inno di Mameli cantato a squarciagola dagli ottantamila dell’Olimpico, dei gol improvvisi di Totò Schillaci, delle serpentine di Roberto Baggio, il mondiale di Walter Zenga che esce male su Caniggia in semifinale, aveva un taciturno e sanguigno romagnolo in panca. Avrebbe dovuto compiere 85 anni tra un paio di mesi l’Azeglio, nato sotto un altro cielo azzurro, quello di Cesena e dell’amata Cesenatico. Un mito assoluto: Valentino Mazzola del grande Torino, visto al Dall’Ara di Bologna quando il futuro ct era ancora un ragazzino. Poi la carriera normale, normalissima, da calciatore di provincia fin dai primi anni cinquanta. Rifiuta la Spal e accetta i 4 milioni di lire del Vicenza (dal 1953 al 1956, otto reti in 54 partite), poi arrivano i 90 milioni della Sampdoria dove segnò sei gol e divenne idolo della curva blucerchiata confessando di essere antigenoano. Infine il Brescia dal ’63 al ’66.
Lì Vicini ha appeso le scarpette al chiodo e si è seduto per un anno in panchina ad allenare le rondinelle. Nemmeno il tempo di un amen ed entra nel giro giusto del settore tecnico della Nazionale. Osserva quotidianamente Valcareggi prima, e Bearzot poi al lavoro a Coverciano. Di quest’ultimo diventa vice e da lì annusa il titolo mondiale azzurro di Spagna ’82. Poi dal 1976 al 1986 gli viene affidata l’Under 21. Vicini consolida una posizione di tecnico severo e testardo che però finiti gli allenamenti ama raccontare barzellette. Poche diavolerie da stregone dagli schemi impossibili. Calcio semplice e gruppo di giocatori tosti da accompagnare e far crescere nel tempo. Zenga, Donadoni, Maldini, Riccardo Ferri. E ancora: Franco Baresi e Beppe Bergomi dalla gestione della prima squadra di Bearzot diventano l’ossatura per la nazionale maggiore che Vicini comincia a plasmare nell’ottobre 1986 dopo il deludente Mondiale in Messico.
L’attesa per Italia 90 è immensa. Vicini ci arriva con una squadra di campioncini e l’ipotesi di un calcio bello e concreto. Inutile dire che azzecca parecchie mosse tattiche e un paio di cambi in corsa che fanno centro. Schillaci impallina l’Austria di testa la sera della prima il 9 giugno 1990. Il paese si scioglie e inizia a tifare come non ha mai fatto. “Dopo ogni partita che abbiamo giocato nella capitale, lungo tutto il percorso che facevamo in pullman viaggiavamo in mezzo a due ali di folla che ci applaudivano. Una cosa mai vista, considerato che arrivavamo in albergo dopo l’una di notte”, spiegò Vicini in un’intervista. Così arrivano le altre due vittorie nel gironcino iniziale con Stati Uniti e Cecoslovacchia. Tre partite, tre vittorie, quattro gol fatti, zero subiti. La striscia positiva continua: agli ottavi 2 a 0 all’Uruguay, nei quarti 1 a 0 all’Irlanda. Zenga non prende mai gol e in attacco oltre a Schillaci segnano tutti. Poi arriva la serata di Napoli e della semifinale con l’Argentina. Maradona fa l’occhiolino ai napoletani che alla fine sembrano più amare El Pibe de Oro dell’undici di don Azeglio (sgarro che Dieguito pagherà con i fischi dell’Olimpico in finale a Roma una settimana dopo).
L’Italia perfetta, l’Italia magica e sognatrice si ferma in quell’anticipo di testa del biondo attaccante argentino che beffa Zenga. Poi i rigori. Gli errori di Donadoni e Serena. Infine la finale per il terzo posto, vinta a Bari. “Assieme a tutti i tifosi italiani siamo fieri ed orgogliosi di questa squadra. 13 punti su 14 disponibili, senza aver mai ricevuto regali. Siamo rimasti amareggiati e soprattutto un po’ beffati”, spiegò Vicini ancora sudato e senza voce ai microfoni di Galeazzi dal prato del San Nicola. E così come aveva costruito nel tempo, in quindici anni di duro lavoro, la Nazionale che doveva vincere i Mondiali tra le mura di casa, Vicini dice addio agli azzurri. Non riesce a far qualificare la squadra agli Europei del ’92 e senza troppo clamore se ne va, lasciando la panchina ad un altro romagnolo. Un altro calcio è possibile. Quello “totale” di Arrigo Sacchi. Ma l’Italia si ferma egualmente ai stramaledetti rigori. Questa volta in finale, a USA ’94. Vicini chiude la carriera prima in panchina al Cesena in serie B da marzo a giugno del 1993, proprio con i colori della maglia che vestì al suo esordio per nemmeno 300mila lire di ingaggio; e chiude definitivamente a 60 anni la carriera di mister per un mesetto scarso all’Udinese in serie A nel settembre del 1993. Ritiratosi a Brescia, dove viveva dal 1963 con la moglie e i tre figli, Vicini non ha mai impartito lezioni a nessun suo successore. Poca cagnara in tv, qualche apparizione puramente nostalgica. Là dove altri hanno straparlato Vicini ci ha messo la passione cocciuta di una carriera di gran classe. Arrivare terzi a un mondiale e vincerlo lo stesso. Che meraviglia l’Azeglio.