Francesca Borri: “La vita al fronte costa più di mille dollari al giorno” – “Le guerre non sono soltanto il fronte, ma tutto quello che c’è intorno. Anche se ai giornali interessano esclusivamente sangue, morti, profughi e orfani”. Francesca Borri, classe 1980, cronista e blogger de ilfattoquotidiano.it, dal 2012 ha raccontato la guerra in Siria (anche nel libro La guerra dentro, Bompiani), dopo essere passata da Balcani, Ucraina e Medio Oriente. I suoi pezzi sono stati tradotti in 15 lingue, scrive per il primo giornale israeliano, Yedioth Ahronoth, e si occupa soprattutto di islamisti e jihadisti. E’ all’estero per un reportage, ma per ragioni di sicurezza non può dire dove si trova. “I giornali non vogliono più essere responsabili se ti succede qualcosa. E anche la guerra è cambiata: non sei più embedded nell’esercito come ai tempi dell’Iraq, oggi devi pensare a come entrare clandestinamente nelle zone di conflitto, come in Siria o nello Yemen“. L’accesso è infatti “una delle cose più complicate, perché ci sono un’infinità di gruppi armati e milizie. Ma oggi il giornalismo, e non solo di guerra, è fatto dai freelance”.
Il racconto dalle zone di conflitto è un mestiere che, però, ha regole tutte sue. “Parlo di me. Il freelance è per definizione solo, pagato a pezzo e invisibile. Nei mesi in cui non scrivo un rigo non sono in cazzeggio, ma sto creando la mia rete di sicurezza, che si costruisce soltanto col tempo. Prima di arrivare in Afghanistan e Yemen ci sono mesi di lavoro, per vivere lì e capirci qualcosa. Sono necessari perché sono soltanto le relazioni che ti permettono di entrare nel Paese e, soprattutto, di uscirne”. E ci sono giornali che capiscono questa dinamica. “Yedioth Ahronoth, in quanto israeliano, sa molto bene cosa sia la guerra. Poi, se l’obiettivo è farsi un giro nei campi profughi o nella cosiddetta ‘prima linea del fronte’ che manco è la 15esima, allora è un’altra partita”.
Nei mesi in cui non scrivo un rigo non sono in cazzeggio: sto creando la mia rete di sicurezza
Per Francesca l’ultima vera giornalista di guerra è stata Marie Colvin del Sunday Times, morta nel 2012 sotto le bombe di Homs. Sempre al fronte, sempre in prima linea tra Medio Oriente e Libia. “Questa è la figura che i giornali hanno tagliato, cioè tutti quelli che sono in giro a vedere materialmente le cose. E non parlo solo di chi si occupa di guerra. Quando a un giornalista anglossassone parli del collega che sta al desk, sa che è l’eccezione perché la sua idea non è certo quella di stare davanti a uno schermo come un burocrate. In Italia è l’opposto: l’eccezione è chi va in giro a vedere cosa succede. E lo vedo anche in Italia: tutti si meravigliano che non stia a Roma, ma sui luoghi delle storie che racconto. Un giornalismo fatto dal pc non vede niente e non capisce niente di quello che accade in un paese”.
Oltre al mestiere snaturato, c’è il nodo dei compensi. “Tutti i quotidiani sono uguali: per una doppia pagina mi hanno dato cento euro lordi. Così non ti ripaghi neanche il biglietto aereo. E le spese sono tutte a carico tuo. Per non parlare di attrezzature e assicurazione, che nessun giornale paga”. Perché andare nelle zone di guerra costa. Tanto. “Noi siamo bancomat ambulanti per i locali, a Baghdad in particolare. Non ha senso dire: ‘Ma quanto vuoi che costi la vita in Libia o Yemen?’. Per noi i prezzi in Iraq e Siria sono più alti che a New York, anche per una cena. Andare al fronte costa più di mille dollari al giorno. Non è necessario avere 80 giornalisti sul posto. Ne bastano pochi che lavorino bene”.
Noi siamo bancomat ambulanti per i locali, a Baghdad in particolare
Ma è possibile essere liberi di raccontare quello che si vede? “Dipende. Per definizione da freelance sei solo. Ma in realtà non lo sei mai, sei sempre embedded. E non vuol dire stare solo con l’esercito. Sei embedded quando sei con una milizia, con le ong, quando sei con i siriani, i palestinesi, gli attivisti locali. Tutti, di fatto, ti lasciano vedere solo quello che vogliono, a volte anche in buona fede. Succede anche a Taranto o Scampia“. Bisogna quindi essere consapevoli che quello che si racconta è solo un frammento di realtà. Le cose, però, andrebbero meglio se si cooperasse tra giornalisti. “Ma l’aiuto reciproco nelle zone di guerra è pari a zero. Quando ero ad Aleppo stavo coi ribelli, quindi non sarei mai potuta accedere alla Siria di Assad. E contrariamente a quello che i lettori pensano non è una scelta: dove ti trovi là rimani. Ma se chiamo la corrispondente da Beirut del Washington Post che ha visto cosa succede a Damasco non mi racconta nulla. E questa è una responsabilità di noi giornalisti”. Dall’altra parte, però, “i lettori sono fantastici. Vogliono leggere storie di guerra. Il problema siamo noi, non il loro interesse”.