Barbara Schiavulli: “In Italia il freelance è lo sfigato della notizia” – “Il giornalismo italiano ha scelto di essere low cost a scapito dell’interesse dei lettori e della qualità. Quando non si sceglie il miglior lavoro possibile, quando non c’è competizione se non su quanto poco si può pagare, il giornalismo fallisce nel suo compito. Ora i giornali si accontentano delle agenzie e di internet, non spiegano, non approfondiscono, non sono curiosi, elementi base di questo mestiere. Si ritiene che si possa fare informazione gratis, ma non è così”.

Barbara Schiavulli ha una lunga esperienza nei territori di conflitto, dal Pakistan all’Africa. Incluso il Medio Oriente, dove dal 2005 al 2008 è stata l’unica giornalista italiana a Baghdad. Descrive un panorama mediatico in crisi, dove la professionalità non trova giustizia nei compensi. “Se si vuole fare bene questo mestiere, e quando dico bene parlo di qualità, è quasi impossibile fare l’inviato di guerra solo per i giornali italiani. Andare nei paesi a rischio, trovare storie, verificare le fonti, restare sempre focalizzati sulle cose che accadono costa, e se una volta i giornali pagavano oggi non lo fanno più”. Alla base la convinzione che “la politica e l’intrattenimento facciano vendere di più. Ma, dati alla mano, non è così. I giornali non interessano, non sono stati in grado di adattarsi alla rivoluzione tecnologica e a capire le esigenze della gente. Hanno perso quel senso culturale che rendeva buono un giornale una volta. Grandi reportage, grandi inchieste. Oggi sui giornali, praticamente tutti uguali, si legge solo quello che si è già saputo la sera prima dal telegiornale o da internet. Non funziona. E peggio ancora non c’è competizione ma omologazione. Ai giornali non interessa fare meglio, ma non fare peggio degli altri, appiattendo il panorama culturale”.

Ho la sensazione che ci sia un sacco di gente che si lasci sfruttare solo per avere il nome in fondo ad un pezzo

Una situazione che all’estero ha qualità di altro tipo. “Le grandi testate in genere hanno inviati, meno di prima, ma la scelta è ‘facciamo meno, facciamo meglio'”. E il freelance gode di uno status diverso. Anzi, la differenza è “abissale”. “All’estero è una persona altamente competente che viene ingaggiata per seguire una cosa particolare, pagata, spesata e rispettata. In Italia invece è l’ultima ruota del carro, lo sfigato della notizia, anche per colpa sua perché accetta qualsiasi cosa. Come compensi in cronaca locale da 5 euro”. In guerra è uguale. “Se uno chiede una cifra, dietro c’è sempre qualcuno che chiede meno, e quando un giornale non sceglie il prodotto migliore ma quello meno caro, i risultati sono davanti agli occhi dei lettori. Una volta un quotidiano comprava un pezzo tra i 150 euro e i 400, oggi molti colleghi accettano meno. Ma a me un volo continua a costare tanto, come l’albergo, internet, il traduttore, la macchina, il cibo. Una volta lavoravi molto, ma coprivi le spese e guadagnavi anche. Ora hai la sensazione che ci sia un sacco di gente che si lasci sfruttare solo per avere il nome in fondo ad un pezzo”. Ma quanto pagano – o pagavano – i giornali per un inviato? “Solo l’assicurazione è sugli 800 euro al giorno, poi c’è il miglior albergo, il volo in prima classe, i traduttori, le ricevute a volte gonfiate. Il freelance invece è come un immigrato clandestino non ha contratti, non ha tutele, si adatta, se riesce a farsi pagare due lire dopo due o tre mesi dalla pubblicazione, è già fortunato. Ma questo umilia noi e tutta la categoria, anche perché il lettore non sa e non distingue”.

Oggi, poi, il compenso per i freelance è “evaporato. Molti colleghi scelgono modi sempre più facili e a volte pericolosi per andare in zone di guerra cercando di spendere meno, tipo raccontare l’Afghanistan stando ospite gratis dei soldati italiani. Ma questo non è giusto. Stando insieme ai soldati racconti i soldati. Oppure vanno in albergacci, quando servirebbe alloggiare in hotel per maggiore sicurezza. Non hanno assicurazione, ma tanto a chi importa se un freelance muore? Anzi qualcuno direbbe che se l’è cercata. A volte ci si dimentica che il giornalismo non è un vezzo, o un capriccio. Essere nei posti dove accadono le cose, raccontarli, capirli, spulciarli è un dovere“. Tradotto: “Non vado in Iraq perché ho voglia di rischiare la pelle, ma perché credo profondamente che l’informazione sia necessaria e doverosa“.

Perché un giornale deve dire quanto mi vuole pagare, mentre se vai da qualsiasi altro professionista, è lui che ti dice la tariffa?

E la libertà di un giornalista dipende da quello che si riesce a fare sul campo. “Se un collega non può permettersi un buon traduttore, che noi chiamiamo fixer, la sua visione sarò sicuramente parziale. Devo dire che nessuno mi ha mai detto cosa dire o casa fare mentre ero in zone di guerra”. La vera guerra del freelance, poi, inizia quando torna a casa e “combattere con i giornali per piazzare i pezzi e farsi pagare, come se quello che fa lui valesse meno del lavoro di un idraulico o di un avvocato”. L’incognita è sempre il compenso. “Perché un giornale deve dire quanto mi vuole pagare, mentre se vai da qualsiasi altro professionista, è lui che ti dice la tariffa? E a volte non è facile avere a che fare con persone parcheggiate agli Esteri, che è la sezione di un giornale che poco interessa agli editori, e che di Esteri sanno effettivamente poco. Non vi dirò quante volte mi è stato chiesto dove fosse Kandahar, e non mi aspetto che un lettore o un collega che si occupa di politica lo sappia, ma un direttore e un capo degli Esteri sì”.

Una noncuranza che riguarda di più gli addetti ai lavori che i destinatari dei pezzi, cioè i lettori. “Sono strasicura che loro siano interessati alle nostre storie, lo vedo ogni giorno nelle scuole che mi invitano, alle presentazioni, alle conferenze. Molti mi dicono “ma perché sui giornali queste cose non ci sono?“. Codirigo una webradio, RadioBullets, con notizie internazionali che non si sentono nei media italiani e abbiamo tanti, tanti ascoltatori. I miei ultimi reportage dal Venezuela, ad esempio, hanno scoperchiato un orrore che qui non si legge. Mi hanno scritto lettori e ascoltatori in lacrime”. E secondo Barbara (nella foto durante la prima intervista al mondo al presidente afgano Ashraf Ghani) oggi più che mai è necessario sapere cosa accade all’estero. “Per conoscere gli estremismi ideologici e religiosi, che riguardano anche noi da vicino, bisogna addentrarsi nel contesto internazionale. Avere una politica estera debole di certo non aiuta, ma un buon giornale non può non investire negli esteri e nella cultura. Forse non porterà grandi guadagni, ma prestigio e dignità sì”. Ed è questo “il motivo per cui è nato il giornalismo, essere al servizio per le persone, cani da guardia del potere. A 360 gradi”.

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“Noi, freelance italiani in zone di guerra. Giornali e tv ci pagano poco, ma i lettori vogliono le nostre storie”

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