Il “memo Nunes” è di dominio pubblico. Il report stilato dalla commissione intelligence della Camera guidata dal repubblicano Devin Nunes e declassificato da Donald Trump, afferma che l’Fbi abusò dei suoi poteri usando come “parte essenziale” delle sue richieste per intercettare la campagna del tycoon il dossier redatto dall’ex spia britannica Christopher Steele pagata dai democratici. E che nessuna richiesta del Federal Bureau of Investigation avrebbe rivelato il finanziamento dem. Il numero due dell’Fbi Andrew McCabe avrebbe messo agli atti che senza quel dossier non sarebbero state avanzate richieste di intercettazione.
Secondo il Washington Post, tuttavia, c’è una frase alla fine del controverso memorandum che di fatto ne demolisce gli argomenti. Il quotidiano si riferisce all’ultimo paragrafo del documento, in cui viene confermato per la prima volta che a far partire le indagini del Russiagate furono informazioni su George Papadopoulos, allora collaboratore di Trump. Papadopoulos sta ora collaborando con le indagini del procuratore speciale Robert Mueller. “Le informazioni su Papadopoulos fecero scattare le indagini di controspionaggio nel tardo luglio 2016 da parte dell’agente dell’Fbi Pete Strzok“, si legge nell’ultimo paragrafo, come hanno fatto notare i deputati democratici. Ciò significa che l’indagine sarebbe andata avanti anche senza le intercettazioni di Carter Page, sulle quali si dilunga il documento per denunciare la loro irregolarità, e soprattutto anche senza il famoso dossier di Steele.
La Casa Bianca ha giustificato la decisione di declassificare e autorizzare la diffusione del report “alla luce del significativo interesse pubblico“. Un interesse che prevale quindi sulle “gravi preoccupazioni” legate alla sicurezza e alla inaccuratezza del documento sollevate dal ministero della giustizia e dall’Fbi. Ma il Partito Democratico insorge: il memo è “uno sforzo vergognoso per screditare” l’Fbi, il dipartimento di Giustizia e il procuratore speciale Mueller, nonché per minare l’inchiesta sul Russiagate, attaccano i membri dem della commissione intelligence, che avevano votato contro la sua diffusione. E i vertici del partito hanno ammonito il capo della Casa Bianca a non usare come “pretesto” il documento per licenziare il numero due della Giustizia, Rod Rosenstein, o il procuratore Mueller. Altrimenti, hanno minacciato, si aprirà una crisi costituzionale.
Si allarga, inoltre, il solco fra Trump e il suo ministro della Giustizia Jeff Sessions, che era contrario alla declassificazione del documento. Sessions ha, infatti, difeso ed espresso apprezzamento per i suoi vertici, compreso Rosenstein, verso il quale Trump ha ribadito la sua sfiducia dopo la diffusione del memo. Dopo l’autoricusazione di Sessions, Rosenstein sovrintende all’indagine sul Russiagate.