A più di quattro mesi dalle ultime elezioni politiche la Cdu/Csu di Angela Merkel e la Spd di Martin Schulz sembrano seriamente intenzionate a dare vita a una nuova Grande coalizione per governare la Germania. Il 12 gennaio scorso i due schieramenti hanno approvato un primo documento di 28 pagine, la base per il futuro “contratto di coalizione” a cui il governo dovrà attenersi durante la legislatura. Nove giorni dopo, in un congresso straordinario della Spd, una maggioranza risicata di delegati (362 contro 279) ha votato a favore della continuazione delle negoziazioni con i cristiano-democratici.

Le trattative per la definizione dei punti programmatici e della compagine governativa potrebbero continuare fino a Pasqua o anche oltre. I socialdemocratici della Spd dovranno infatti far approvare il contratto di coalizione a tutti i più di 440mila membri del partito: un processo che di solito dura almeno tre settimane. Quindi non è detta l’ultima parola, ma la strada sembra ormai essere segnata in modo inequivocabile. Anche per la difesa del clima a quanto pare. Uno dei punti principali su cui i due grandi partiti popolari sembrano essere d’accordo, infatti, è lo spostamento in avanti di dieci anni degli obiettivi climatici e un’uscita più lenta dal carbone, con il quale in Germania si produce il 37% dell’energia (contro il 15,90% dell’Italia).

“Gli obiettivi climatici non si toccano”, avevano dichiarato in campagna elettorale sia Merkel sia il suo avversario, ora alleato, Martin Schulz. Tradotto in numeri e scadenze, significa che entro il 2020 la Germania avrebbe dovuto far scendere le proprie emissioni di Co2 del 40% rispetto al 1990: un traguardo fissato nel 2007 dal primo governo Merkel, anche allora una Grande Coalizione. Ora però si fa marcia indietro. Spd e Cdu si arrendono, saltano il 2020 e passano subito all’obiettivo successivo: una riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030.

In base alle analisi del think-tank Agora-Energiewende (agorà della transizione energetica), lo spostamento in avanti del traguardo non alleggerirà gli impegni tedeschi sul clima, anzi li renderà ancora più onerosi a causa dell’inerzia degli ultimi anni. Entro il 2030, sostiene Agora, la produzione di energia dal carbone “dovrà almeno dimezzarsi”.

Peccato che in Germania siano attive, al momento, quasi 150 centrali a carbone (sono appena otto in Italia) e nessuno tra Cdu e Spd  abbia ancora proposto un piano per chiudere almeno quelle che ancora bruciano lignite, il carbone peggiore, che emette un terzo di CO2 in più dell’antracite e tre volte in più del gas naturale. L’uscita dal carbone sarà pianificata ma i tempi li deciderà una commissione ad hoc nel corso del 2018 e non saranno parte del contratto di coalizione. La lignite, intanto, continua ad essere estratta senza sosta in tre regioni tedesche: Renania, Lausitz (Brandeburgo) e Sassonia, nei dintorni di Lipsia.

Con un’estrazione di circa 172 milioni di tonnellate (nel 2016), la lignite contribuisce per quasi il 40% alla produzione tedesca di energia da fonti primarie“, spiega Bundesverband Braunkohle, l’organizzazione federale dei produttori di lignite. “Si tratta di un’importante fonte nazionale che dà lavoro a circa 20.000 persone in tutto il Paese”.

Ed è proprio a questi posti di lavoro che né la Cdu, né la Spd né tantomeno i sindacati del settore sono disposti a rinunciare. In effetti, nelle aree in cui si estrae la lignite stanno guidando le coalizioni di governo regionale proprio la Cdu (in Sassonia e Renania) e la Spd (in Brandeburgo). Da nessun’altra parte in Germania il carbone è sinonimo di voti come in queste aree. Per questo le ruspe continueranno a scavare e non si fermeranno davanti a nulla e nessuno.

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