Il senso di sé, oltre che della misura, della classe politica che di tanto in tanto si autoproclama nuova è consegnato anche dai simboli. E non solo il nuovo corso non rinuncia a mettere in mostra i tic di quello vecchio, ma in certi casi ne acuisce i vizi. Finché tutto si confonde e partiti che, nel cuore e nella mente, dovrebbero essere agli antipodi si ritrovano a compiere gli stessi gesti, come fossero allo specchio.
A Livorno – come ilfatto.it raccontò mesi fa – la maggioranza dei Cinquestelle (non da sola) nega l’intitolazione di un pezzo di lungomare a Carlo Azeglio Ciampi, partigiano azionista, governatore della Banca d’Italia, capo del governo e presidente della Repubblica, colpevole – è il succo delle tesi, sbalorditive per il fatto di non essere pronunciate al bancone di un bar – di “aver gettato le basi della crisi economica”, di non aver “contrastato l’ingresso nell’euro”, di aver “agevolato la privatizzazione di alcune aziende statali”, di “aver reintrodotto la parata del 2 giugno”. Così i consiglieri, dal loro seggio ricevuto per poco più di un colpo della sorte, hanno stracciato la candidatura. La decisione ha imbarazzato il sindaco Filippo Nogarin, ma – dice la cronaca – tutto si è limitato all’imbarazzo, d’altronde condiviso da altri suoi concittadini. C’è chi ha voluto sbarazzarsi del problema scartando di lato: piuttosto dateci via Ciampi ma nel senso di Piero. Dio lo volesse, come dicono da queste parti per dire “magari”. Ma la questione resta l’altra: la sicumera di mettersi al pari di Carlo Azeglio Ciampi e ridurlo alla categoria di negletto, come se si trattasse di Pinochet, e ridurre un’anomalia a fastidiosa bagatella.
Per coincidenza, a poche ore di nave, la stessa disinvoltura dei consiglieri M5s è stata anche quella dei loro colleghi di centrodestra del principale Comune dell’isola d’Elba, Portoferraio, che hanno deciso di assegnare alla piazza sulla quale si affaccia il municipio il nome di un medico che è stato sindaco per quattro anni. Nulla di male, anche se la motivazione quasi esclusiva dell’intitolazione è una sorta di risarcimento morale postumo per un processo che portò il primo cittadino agli arresti e – dopo che il sindaco morì – a una serie di assoluzioni. Per intitolare la piazza al sindaco però – e qui l’affare s’ingrossa – il Comune decide anche di cancellare il nome di Pietro Gori. Cioè un personaggio storico, stella dell’anarchismo italiano e internazionale. Che, povero diavolo, anche lui nel corso della sua vita è stato arrestato molte volte ingiustamente fino ad essere anche costretto più volte all’esilio. Con la differenza che nel suo caso il motivo erano le sue lotte libertarie e non una operazione urbanistica. Gori – per dire due o tre cose banali di una spolveratina di biografia – fu antropologo, criminologo (contestava le tesi di Lombroso), era chiamato “l’avvocato dei poveri” e la lotta per un Paese più libero fu il filo di tutta la sua vita. Scrisse Addio Lugano bella, che gli anarchici hanno cantato per cent’anni, e fu tra i protagonisti a Milano dei tumulti per la rivolta del pane. Scampó alle cannonate ordinate da Bava Beccaris, ma dovette scappare in Svizzera perché la polizia del Regno cominciò a maltrattare organizzazioni, partiti e esponenti di sinistra (fu poi condannato in contumacia a 12 anni). Il sindaco di centrodestra di Portoferraio – quello attuale, un architetto – senza rossori ha spiegato la scelta di togliergli la targa dalla piazza principale del paese perché tanto a Gori è già intitolata una stradina lì vicino.
Era agosto, invece, quando un assessore del Pd di Cardinale, in provincia di Catanzaro, pronunciò un bel sì di petto per l’intitolazione di una strada di quel paese a Pino Rauti. L’assessore parlò di “leggerezza” e non riuscì a capire il problema neanche mentre si giustificava: “L’amministrazione – disse infatti ai giornali – nel titolare alcune strade del nuovo quartiere di Cardinale, ha voluto omaggiare le figure di statisti e di capi di Stato. E così accanto a Pertini, De Gasperi, Moro, papa Giovanni, si è aggiunto il nome di Rauti, nato proprio a Cardinale”. Cioè ha detto: poiché c’erano statisti come Pertini e Papa Giovanni allora c’era anche Rauti. Tra le bonus track può infine essere ricordato che non ha mai presentato le dimissioni il presidente di circoscrizione di Firenze che – come il “sindaco-eroe” Sergio Pirozzi e il segretario della Lega Matteo Salvini – trovò il modo di tessere le lodi della grande operosità di Benito Mussolini.
Sui limiti della democrazia rappresentativa si è già soffermato chi ha avuto problemi un po’ più seri di questi. Un po’ meno proibitivo è chiedersi dei limiti della classe politica che si sta formando nella presunta Terza Repubblica, dal piccolo Comune al Parlamento. Limiti non più solo di competenza, non più solo di onorabilità e non più solo di buon senso. Ma di autostima.
Se da un certo momento in poi, la politica ha cominciato ad avere “la faccia come il culo”, come titolava un giornale scomparso troppo presto, e quella faccia per certi versi non l’ha mai abbandonata, ora si aggiungono anche problemi di diottrie: la capacità ridotta dell’eletto a vedere se stesso nella giusta dimensione. A scambiare la propria opinione come rappresentativa di tutta la cittadinanza. A pubblicare comunicati, come ce ne sono a decine ogni giorno, a firma dell’ultimo deputato del gruppo misto, per mandare la solidarietà alla Casa Bianca, mandare un messaggio di augurio al re di Svezia o dire la propria sulla crisi nucleare.
Confondere un seggio con una laurea honoris causa significa non percepire quando è il momento di sentirsi piccoli, di dire: mi dispiace ma nel dubbio, in questo caso, è meglio che resti in silenzio. E’ uno dei vari sintomi dello scontro tra tifoserie sorde e cieche e curarlo gioverebbe alla qualità dell’amministrazione della cosa pubblica. Invece sembra farsi carne le profezia del principe di Salina: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene. E tutti quanti – Gattopardi, sciacalli e pecore – continueremo a crederci il sale della terra“.