Ci ha fatto partire da un cratere spento fra i ghiacci d’Islanda, seguendo la pergamena cifrata di un alchimista del Seicento, per farci sbucare alle pendici dell’isola di Stromboli. Gli oceani che abbiamo attraversato non erano in superficie, ma nel centro della terra. Poi, insieme ad Aronnax, Conseil e Land, siamo miracolosamente scappati dal Nautilus, il sottomarino-trappola, per risvegliarci sani e salvi nella capanna di un pescatore. Insieme a Michel Ardan abbiamo volato, in sella a un missile, attorno alla luna. Con Helen abbiamo visto il raggio verde e con Fogg abbiamo fatto il giro del mondo in ottanta giorni. Il responsabile e genio di queste fantastiche avventure, e di molte altre ancora, si chiama Jules Verne. L’immaginazione di ogni bambino del Novecento si è nutrita di questa sostanza esplosiva, fatta di sogni e fantascienza. I romanzi di Verne sono stati, per tutti noi, la finestra sul cosmo, ciò che ci costringeva a pensare l’impossibile, a conquistare il futuro. Le sue parole plasmavano il nostro immaginario, davano forma al nostro inconscio.
L’opera di Verne, però, contrariamente a quanto si possa pensare, non è mai stata (soltanto) letteratura per bambini. Il particolare intreccio tra scienza, natura e uomo, che caratterizza tutti i suoi romanzi, ha attirato l’attenzione di molti studiosi, in particolare francesi. Si possono citare, tra tanti, Michel Butor, Roland Barthes, Michel Serres, Michel de Certeau, Michel Foucault. Ognuno di loro si è confrontato in modo serrato con diversi aspetti dei romanzi di Verne: la poetica, l’onirismo, i gesti narrativi, l’inconscio strutturato dei romanzi, i miti, la tecnica narrativa.
In pochissimi, però, si sono soffermati ad analizzare o denunciare un tratto inquietante, e allo stesso tempo debordante, dei suoi romanzi: il colonialismo. Verne aderisce pienamente al progetto imperialista della Francia (XVII-XX secolo), ne giustifica gli obiettivi e ne condivide l’ideologia. Celebra nei suoi romanzi, sia in modo esplicito che implicito, il colonialismo francese (si vedano, in particolare, i romanzi: Le avventure di Ettore Servadac, Jangada, Mathias Sandorf, Mirabolanti avventure di Mastro Antifer, Clovis Dardentor) attraverso una narrazione che tende a naturalizzare il fenomeno; inferiorizza costantemente le popolazioni delle colonie, descrivendole sempre come arretrate o meschine, e rappresenta i paesi occupati dalla Francia – Algeria in testa – come sue naturali estensioni territoriali. Le uniche critiche le rivolge agli altri Stati colonizzatori: Inghilterra, Belgio.
Per Verne, l’unico colonialismo buono è quello francese. Come mai, allora, i suoi celebri interpreti, molti dei quali noti anche per il loro pensiero radicale e antiautoritario, hanno evitato di fare i conti con uno dei tratti più importanti della sua opera? Quali sono state le ragioni del loro silenzio? Che cosa ci dice delle scienze umane* la mancata denuncia? A questi interrogativi risponde, in modo molto incisivo, il bel libro di Fabrizio Denunzio, L’inconscio coloniale delle scienze umane. Rapporto sulle interpretazioni di Jule Vernes (1949-1977), pubblicato di recente da Orthotes (2018).
Profondo conoscitore di Verne, Denunzio esprime così il suo stupore davanti ai testi degli studiosi verniani: “(…) al fracasso colonialista con cui nel 1947 il territorio algerino veniva parificato a quello metropolitano francese, rispondeva il silenzio del Punto supremo e l’Età dell’oro attraverso alcune opere di Jules Verne di Butor del 1949. Al fragore dello scoppio della guerra d’Algeria nel novembre del 1954, rispondeva lo stesso silenzio, questa volta del Nautilus e Bateau ivre di Barthes del 1957. Ai festeggiamenti del 19 marzo 1962 per la fine della guerra e la liberazione degli algerini dai francesi, seguiva il solito silenzio, il turno, però, era delle Lossodromie dei viaggi straordinari di Serres del 1964. Infine, al quadro complessivo di un’Algeria sconvolta da più di centotrent’anni di colonialismo, con cui si poteva e doveva fare i conti dopo gli esiti della guerra di liberazione, facevano eco le raffinatissime analisi testuali de La tecnica narrativa di Jules Verne di Foucault del 1966 e della Prefazione del 1977 di de Certeau a I grandi navigatori del Settecento di Verne”.
Come un vero esploratore verniano, Denunzio si avventura allora in un percorso difficile, armato di una lente speciale – il pensiero scientifico corrosivo, rigoroso e, quindi, anticoloniale – attraverso la quale egli setaccia, pagina dopo pagina, ogni passaggio e illustrazione dei romanzi di Verne, così come ogni singola parola dei suoi celebri interpreti.
Il risultato finale è sconcertante, destabilizzante, come ogni vera rivelazione: le scienze umane, o “scienze disumane”, come efficacemente le definisce Denunzio, si fondano su un inconscio nazionalista e colonialista:
“La disumanità degli scienziati verniani dipende, epistemologicamente, dall’aver praticato una scienza che, dissolvendo i confini disciplinari, dissolve ogni concezione ingenua di uomo, il che vuol dire svelare quel sistema che consente ai significati umani presenti nell’opera di Verne di dirsi, piuttosto che dirli. Disumanità che, a sua volta, dipende, politicamente, dal non aver svelato a se stessi quanto la loro coscienza scientifica rispondesse ai bisogni di quella nazionale. Butor, Barthes, Serres, Foucault, de Certeau assolvono a metà al compito di una scienza dell’uomo: riportare non solo i fenomeni, ma anche la coscienza (umana) dello scienziato ai suoi meccanismi di riproduzione sociale”.
Il libro ha il merito di svilupparsi attraverso un’analisi dettagliata, ordinata e sistematica, senza perdere la vivacità di una scrittura spontanea, fresca. Come dice lo stesso Denunzio, questo saggio è da intendersi come una selezione di “note etnografiche divise in blocchi tematici”. Il volume è diviso in quattro parti: si parte con un’ampia riflessione sul rapporto tra letteratura, colonialismo e società, si prosegue con la disamina dei romanzi di Verne nella seconda parte, i quali vengono confrontati con le parole degli interpreti verniani nella terza parte, per poi finire con l’esplorazione di alcune delle pagine più colonialiste di Verne, brillantemente effettuata anche con l’aiuto di due studiosi francesi di ispirazione marxista, come Pierre Macherey e Jean Chesnaux.
Fabrizio Denunzio afferma nell’introduzione che individuare l’inconscio colonialista degli scienziati umanisti francesi ha senso “solo se si è disposti a fare un lavoro di auto-analisi sulla propria cultura nazionale per vedere quanto la rimozione del colonialismo ne permei la struttura”. Motivo per cui, egli assicura che questo libro sul colonialismo di Verne e l’inconscio coloniale dei suoi interpreti francesi “è da intendersi solo come materiale preparatorio (…) a un lavoro più ampio sull’industria culturale italiana e il colonialismo”.
Sarebbe ora. Specie in un paese come l’Italia, che mai vuole fare i conti con il suo passato (che è anche il suo presente) coloniale. E non è certo un caso se sui quotidiani si discetta ora in favore del “colonialismo solidale” (come se non fosse sempre giustificato in questo modo anche il più feroce dei colonialismi), oppure si parla allegramente di “prerogative” italiane in Libia o in Etiopia, con ciò intendendo, ovviamente, le prerogative che derivano da un passato coloniale. Per non parlare delle scienze sociali – sociologia delle migrazioni in primis – che, in Italia, salvo alcune rare eccezioni, grondano pensiero coloniale da tutti i pori.
* Nell’espressione “scienze umane” la cultura francese dell’epoca includeva, grosso modo, quelle discipline (sociologia, psicologia, analisi della letteratura e dei miti) che studiavano l’uomo a partire dalle acquisizioni della psicoanalisi freudiana.