Il caso Karadima-Barros è un incidente serio nell’attuale fase del pontificato. Un affare di pedofilia e di occultamento di abusi che chiama in causa la vigilanza di papa Francesco, l’atteggiamento di insistita negligenza (tardivamente ammesso) del cardinale Francisco Javier Errazuriz, già arcivescovo di Santiago del Cile e attualmente membro del Consiglio speciale dei 9 cardinali che assistono il pontefice, nonché il funzionamento degli organismi di controllo vaticani in tema di abusi.
La vicenda è approdata nuovamente sulla rete dell’Associated Press e sulle pagine del New York Times con la pubblicazione della lettera drammatica di un abusato, Juan Carlos Cruz, indirizzata a Francesco e rimessa nelle sue mani già nel 2015. E ormai l’affaire ha assunto il carattere di una cartina di tornasole per la strategia di “tolleranza zero” in tema di pedofilia, propugnata da Francesco sin dalla sua elezione. Come quando richiamò immediato da Santo Domingo il nunzio-arcivescovo Wesolowski e lo processò canonicamente per abusi, con la conseguenza che il prelato fu degradato e privato della tonaca.
I fatti. Il sacerdote Fernando Karadima (oggi ottantasettenne) è stato per un quarto di secolo titolare della parrocchia El Bosque a Santiago del Cile, trasformandola in un centro attivo di formazione giovanile e vocazionale. Un personaggio dotato di grande carisma. Molti sacerdoti e alcuni vescovi sono passati attraverso l’esperienza della parrocchia El Bosque.
Nel 2003 il gesuita Juan Diaz segnala all’arcivescovo di Santiago Errazuriz la testimonianza di un chierichetto abusato da Karadima. Errazuriz non si muove. Si moltiplicano le testimonianze sul prete-predatore. Nel 2005 giunge a Errazuriz un rapporto diocesano circostanziato. Il cardinale blocca l’inchiesta e cerca di trasferire burocraticamente Karadima ad un’altra parrocchia. Classico metodo dell’insabbiamento.
Soltanto nel 2009 Errazuriz mette in moto l’inchiesta. La documentazione viene mandata in Vaticano nel 2010 e nel 2011 (sotto il pontificato di Ratzinger) Karadima viene punito con il ritiro in un convento. Il cardinale Errazuriz chiederà successivamente “perdono” alle vittime per non avere subito creduto – così dice – alle denunce.
La vicenda esplode nuovamente con polemiche infuocate nel 2015, quando papa Bergoglio nomina monsignor Juan Barros (nella foto), già ordinario militare del Cile, vescovo della diocesi di Osorno. Perché Barros è stato uno dei pupilli del prete-predatore Karadima. Perché varie dichiarazioni indicano in lui una persona, che era fisicamente presente, quando Karadima si permetteva atteggiamenti lascivi con i ragazzi che lo circondavano. Può essere vescovo chi ha visto e taciuto? Può guidare una diocesi chi non è intervenuto in nessun momento per fare allontanare un prete-predatore? L’insediamento di Barros nella sua diocesi è accompagnato da violente manifestazioni. Francesco, nello stesso anno, dichiara ad un cattolico cileno in piazza San Pietro che le contestazioni sono una manovra di “sinistrorsi”.
Il 2015 è però anche l’anno in cui viene recapitata al Papa la lettera di Juan Carlos Cruz, una delle vittime di Karadima. Quattro membri della commissione anti-abusi per la protezione dei minori (istituita proprio da Francesco) si recano a Roma dal cardinale O’Malley per dargli personalmente la denuncia di Cruz. “Gli demmo la lettera e ci assicurò che l’avrebbe data al papa… e successivamente ci garantì che era stato fatto”, afferma oggi all’Associated Press Marie Collins, vittima di abuso clericale e allora membro della commissione (da cui si è ritirata per i sabotaggi delle gerarchie vaticane).
Nella lettera Cruz rievoca Karadima che bacia in bocca e palpeggia ai genitali i ragazzi della sua comunità “…e Juan Barros, se non stava baciando Karadima, guardava mentre Karadima toccava noi minori”.
Ancora nei primi giorni della sua permanenza a Santiago, durante il viaggio in Cile a gennaio, Francesco ripete ai giornalisti cileni: “Il giorno che mi porteranno prove contro il vescovo Barros, parlerò. Non c’è uno straccio di prova contro lui. Sono tutte calunnie”. E’ la frase che spingerà il cardinale americano O’Malley, presidente della commissione abusi, a prendere le distanze dal pontefice dichiarando che parlare così di “prove” diventa motivo di “grande dolore per i sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero”.
In aereo il 21 gennaio scorso, nel viaggio di ritorno da Cile e Perù, Francesco aggiusta il tiro, dicendo ai giornalisti che intendeva dire: “Non ci sono evidenze” , cioè prove legali, per una condanna. E’ a questo punto che tutta la vicenda diventa molto scottante e rilevante per l’opinione pubblica al di qua e al di là dell’Oceano. Perché ai giornalisti il pontefice ha detto testualmente: “Il caso del vescovo Barros è un caso che ho fatto studiare, ho fatto fare indagini, ho fatto lavorare molto e realmente non ci sono evidenze”. Sembra chiaro dalle parole di Francesco che il pontefice abbia ordinato una o forse più di una investigazione sulla posizione di Barros. E che i responsabili delle indagini gli abbiano riferito che non esistevano prove della presenza di Barros quando Karadima si esibiva in atti di abuso. Sorge allora la domanda: quale organismo ha svolto l’indagine? I possibili referenti sono la Conferenza episcopale cilena, la Congregazione vaticana per i Vescovi, la Congregazione per la Dottrina della fede.
Francesco stesso sembra scosso, altrimenti non avrebbe inviato ora in Cile un investigatore eccellente come il vescovo di Malta Charles Scicluna (membro del S.Uffizio) che smascherò a suo tempo i delitti del fondatore dei Legionari di Cristi Marcial Maciel.
Le risposte, che dovranno arrivare, saranno importanti per la credibilità della strategia di “tolleranza zero”. Le attende l’opinione pubblica sia cattolica che quella laica interessata al messaggio di Francesco.