FINAL PORTRAIT di Stanley Tucci, con Geoffrey Rush, Armie Hammer GB 2017 Durata: 90’ Voto: 3/5 (AMP)
Parigi, 1964. L’artista svizzero Alberto Giacometti conduce una vita all’insegna del caos nonostante il successo di cui gode indiscutibilmente da anni. Spinto dal bisogno di soldi, accetta di ritrarre lo scrittore americano James Lord che giunge nella capitale francese pensando sia questione di pochi giorni. Per la natura umorale di Giacometti, invece, la permanenza si protrae a lungo creando fra i due una stravagante amicizia. Istrionico, paranoico e allergico alla decenza, il Giacometti di Stanley Tucci, alla sua quinta fatica in lungo, diventa credibile assumendo i tratti di un grande interprete come Geoffrey Rush, in perfetto ping-pong dialettico con Armie Hammer, che dona corpo e volto (bellissimi) a Lord. Se all’origine dell’opera c’è un diario, “A Giacometti Portrait” redatto dallo stesso scrittore-modello che vi descrisse i “folli” 18 giorni in compagnia dell’artista, al suo centro è però il “gioco dell’arte”, nel suo essere ciclico e dunque incompiuto. Perché in questo credeva Giacometti, nella naturale incompiutezza dell’arte dove il fare e disfare si cadenzavano verso una spirale eternamente insoddisfatta. Egli era maniacale, instabile e inaffidabile, almeno dal punto di vista umano e il contrappunto col suo opposto – elegante e borghese – incarnato dal modello, lo aiutano ad uscire allo scoperto: gradualmente, infatti, il film racconta la convergenza di questi due universi paralleli, reciproci “spioni” di due frammenti di umanità così distanti, almeno in apparenza. Peccato il lungometraggio di Tucci sia imprigionato in una schematicità che ne impedisce auspicabili “voli” alla Giacometti: sarebbe stato un grande film sull’arte e sull’uomo.