La terza serata del Festival ha cominciato a dare già delle conferme e delle prese d’atto. La conferma è che, come era facile prevedere già dal primo ascolto, non ci libereremo facilmente della canzone de Lo Stato Sociale. La presa d’atto è che Moro e Meta, dopo il gran rumore per la possibile eliminazione, probabilmente escono addirittura rigenerati da tutta quella storia. Comunque, qui dobbiamo parlare d’altro. E allora ecco di seguito il peggior momento musicale e quello migliore della terza serata del Festival di Sanremo 2018.

Il peggiore: Luca Barbarossa. Mi spiace dirlo, perché è un cantautore che apprezzo e stimo molto. Forse qui entra in gioco anche lo scarto tra le aspettative e la realtà, ed è un errore aspettarsi che un artista scriva sempre Via Margutta o Portami a ballare. Ma, soprattutto nel testo e nell’intenzione, Barbarossa con Passame er sale proprio non mi ha convinto. La matrice è la canzone popolaresca, quella romana, alla Romolo Balzani per intenderci. Il testo ha però dei passi forzati, in certi punti addirittura ai limiti del fastidioso. Barbarossa è autore a volte sublime, ma qui scimmiotta qualcosa di cui nemmeno nell’intenzione restituisce un briciolo. Il momento migliore di questo momento peggiore avviene alla fine, dopo il brano, quando dice a Michelle Hunziker: “Quanto sei bella”. Avesse cantato tutta la canzone con quella genuinità sarebbe stata un’altra storia.

Il migliore: Gino Paoli e “Una lunga storia d’amore”. Lo so che ieri ho citato Vecchioni, e la scelta di Paoli può sembrare speculare. Però – ragazzi – quel brano rappresenta benissimo la poetica di un artista che, assieme a una manciata di ragazzi geniali sulle panchine di via Cecchi a Genova alla fine degli anni Cinquanta, ha inventato la canzone d’autore. Il brano è del 1984. Più di vent’anni prima aveva scritto “Il cielo in una stanza”, forse la canzone più emblematica della scuola genovese dei cantautori, che rivoluzionò il linguaggio perché inserì l’autorialità e la realtà nella canzone discografica. “Il cielo in una stanza” parlava dell’amplesso con una prostituta, quando le canzoni del tempo erano tutt’altro che audaci e decisamente perbeniste e ipocrite nelle tematiche.

Paoli nel testo di “Una lunga storia d’amore” cita esplicitamente la canzone di vent’anni prima (“è stato come volare/ lì dentro camera mia”), e così ribadisce un’intenzione d’autore, uno stile personale: in quel brano dissemina di simboli una poetica tutta sua, e sembra dirti “ascoltami, sono io che ti canto, sono io l’autore, questo è il mio mondo, il mio modo di fare: ti canto la realtà, non l’amore di plastica e finto. Non voglio venirti incontro, non voglio farti divertire: l’amore finisce, questa è la storia, questa è la realtà”. Un modo di scrivere e concepire la canzone preziosi e senza infingimenti, che evidentemente bisogna far conoscere ai più giovani.

Già, perché in questo Festival (se si esclude Mirkoeilcane) le nuove proposte non hanno particolarmente brillato: in molti casi, puntano solo al ruolo del “poppettaro beota”. E allora, per due sere di fila, Vecchioni e Paoli fanno solo bene al cuore.

A domani.

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