Quasi completamente rasa al suolo dai raid aerei degli alleati il 13 e 14 febbraio del 1945 Dresda è riuscita in questi decenni a ritrovare la sua fisionomia attraverso una miracolosa e minuziosa ricostruzione. Per tornare ad essere la magnifica capitale del suo Bundesländer ricco di storia, con un fiume ribelle e paesaggi "particolari".
La foto più emblematica di Dresda è certamente la meno bella di quella che illustrano questo testo. Certamente la meno classica. Perfino brutta, inutile. Si vede una piazza del centro storico, la facciata di un palazzo, nuovo, si direbbe, ma rispettoso dello stile della città. Davanti le insegne di ditte varie, i cartelli delle autorizzazioni, i nomi dei responsabili dei lavori, e cinque gru che svettano al di sopra dei tetti del palazzo. Gru da cantiere edile. Gialle, alte, slanciate, in movimento, stagliate contro il cielo. Lavori, insomma, una ristrutturazione, un rifacimento. Niente di particolare. Non qui, a Dresda.
Di gru e cantieri, di transenne gialle che chiudono spazi e operai con il casco fluorescente ne vedi dappertutto. Fai perfino fatica a tenerli fuori dall’obbiettivo. Impalcature, ponteggi qua e là che “impallano” la tradizionale foto turistica. Lavori. Ma sono lavori che durano del 1945, o poco dopo. Dalla fine della Seconda Guerra, o poco dopo. Settant’anni e passa, a metà tra il mezzo secolo e il secolo. E non sono ancora finiti. Perché la città si è dovuto rifarla da zero.
Il 13 febbraio del 1945 per una decisione strategica “scellerata e criminale” per molti, “dolorosa ma necessaria” per chi la scelse, sulla pacifica, serena Dresda, bella come Firenze si diceva, orgogliosa come era la capitale della regale Sassonia, 800 aerei inglesi scaricano 1500 tonnellate di bombe esplosive e 1200 tonnellate di bombe incendiarie, sbriciolando secoli di storia, cultura e bellezze architettoniche. Uccidono Dresda. Distruggono l’intero centro storico e abbattono il 60 per cento dell’intera città. Che non aveva fabbriche di cannoni Krupp, e nemmeno fabbriche di Vergeltungswaffe, “arma di rappresaglia” dice la traduzione, come le aveva chiamate Goebbels ministro della propaganda, le famigerate V1 e V2, le bombe volanti che la Germania spediva a stormi oltre la Manica a devastare le città inglesi, ma aveva solo i suoi abitanti e migliaia di profughi spinti a ovest dall’avanzata dell’esercito russo arrivati qui proprio perché Dresda era considerata una città sicura, non importante.
C’era sì qualche insediamento industriale non di grande conto ai fini bellici, nei sobborghi, ma vennero praticamente risparmiati. “L’obbiettivo era colpire l’anima della Germania, la sua storia” si dice qui “e Dresda è la rappresentante più nobile della Germania”. Così non si seppe mai quante persone rimasero sotto i sassi e le pietre che si ammassavano al suolo, e quanto morirono bruciate dal fosforo delle bombe incendiarie che non se la prendevano, le bombe, con i monumenti e le chiese ma proprio con gli essere umani. Il fosforo si attaccava agli abiti e bruciava, antesignano dell’infausto napalm che venne più tardi in un’altra area del mondo. Perché le guerre degli uomini sono così, non hanno pietà degli uomini. 130mila morti, si stima, forse 200mila, si stima. ”Un massacro provocato dai nazisti, che erano pazzi e spietati, ma voluto dagli inglesi, che non sembrava fossero pazzi e spietati”, scrisse poi qualcuno.
La discussione sulla decisione degli alleati è ancora aperta. La città è gemellata con Coventry, la città inglese più danneggiata dai bombardamenti delle V2 delle Luftwaffe. Un dolore comune. Perfino la regina Elisabetta finanziò più tardi con alcune iniziative la ricostruzione. Fino al 1944 Dresda era rimasta indenne, fuori dal tiro incrociato di americani e inglesi che cercavano di sfiancare la Germania distruggendo fabbriche, ponti e ferrovie e le città che ci stavano intorno. Quando il primo aereo della Raf comparve nel cielo della città la guerra era praticamente finita. Così il dibattito sui “fatti di Dresda” non è ancora chiuso. E il ricordo resta indelebile. Per chi è sopravvissuto e le generazioni che sono venute dopo. Perché le testimonianze di quei giorni sono ancora lì. E sono anche le gru gialle nella piazza. Cioè i simboli della ricostruzione non ancora finita. E ogni anno il 13 febbraio i cittadini di Dresda accendono candele e sfilano sotto il simbolo più importante della rinascita, la Frauenkirche. La chiesa luterana più importante e bella della Germania non c’era più, era solo un ammasso di pietre. Basta vedere le foto dell’epoca. Rasa al suolo, come si dice. “Vedi quelle pietre più scure” ti raccontano “ecco quelle sono quelle originali”. Ricostruita come una gioco del Lego, pietra su pietra, rifatta, rinata. Sembra impossibile. Così quando la vedi ammiri due volte. Per la sua bellezza, dovuta all’architetto George Bähr che l’aveva progettata ispirandosi alle chiese barocche italiane del tempo e le squadre di operai che la costruirono tra il 1726 ed il 1743. E per il miracolo della ricostruzione perfetta.
Avevano ricominciato subito a ricostruire “lo scrigno delle meraviglie” come aveva definito Dresda Goethe, che definiva un po’ tutto, fin da subito. Difficile. Il centro era tutto complicati palazzi barocchi e piccole case con i tetti a punta di mattoni e legno. La parentesi sovietica non aiutava. Mosca pensava alla sua nuova appendice territoriale in modo più pratico. E così se molto venne ricostruito (perfino sulla base dei dipinti di un pittore italiano Bernardo Bellotto nipote del Canaletto che dallo zio aveva appreso la tecnica “fotografica” dei suoi dipinti e si era trovato a vivere e dipingere da queste parti, per 11 anni pittore di corte a Dresda) e molto di moderno è stato aggiunto e appiccicato, compresi i casermoni sovietici, la chiesa era l’ultimo dei pensieri della Dresda forzatamente sovietica. Solo dopo la riunificazione della Germania si cominciò a pensare di ridare la forma originale all’ammasso di pietre che giacevano sulla piazza davanti alla statua di Martin Lutero rovesciata. Peraltro non era stata una bomba a sbriciolare la chiesa ma la conseguenza del calore dovuto a all’incendio degli arredi interni che aveva fatto crollare un pilone di sostegno della struttura. I lavori cominciarono nel 1994 e solo nel 2006, 800esimo anniversario della fondazione della città i primi cittadini poterono entrare di nuovo nel tempio.
Così è impossibile aggirarsi semplicemente da spensierati turisti in una città come questa. I decori barocchi già magnifici per loro conto si guardano con ancora più ammirazione se si conosce la loro storia. E’ stato ricostruito nel 1985 il Semperoper, raso al suolo completamente. E’ stato ricostruito nel 1964 lo Zwinger, il grande palazzo reale in stile barocco testimonianza dei fasti sassoni, quasi una Versailles con giardini e padiglioni. E’ stata ricostruita negli Anni ’80 ancora sotto la DDR la Hofkirche, la cattedrale cattolica della Santissima Trinità. E’ stato ricostruito il Castello di Dresda (restauro terminato solo nel 2013) ex palazzo reale di cui era rimasto intatto solo il Furstenzug, un gigantesco mosaico di 102 metri realizzato su una parete esterna con 24.600 piastrelle di porcellana realizzato nel 1906 che rappresenta la sfilata dei principi di Sassonia durante otto secoli di storia. Era rimasto indenne nella tremenda feuersturm, la tempesta di fuoco semplicemente perché le porcellane sopportano il calore, anzi nascono dal calore. E’ stato ricostruito tutto quel che si poteva. Ma era una città troppo complicata per riuscire nell’intento di riportarla com’era. Sotto l’impulso di principi ambiziosi era diventata ricca e preziosa. I palazzi rococò si sprecavano, le chiese erano tutte guglie e pinnacoli e cupole. C’erano parchi magnifici e anche la parte meno principesca ma più borghese era in tono. Belle case ovunque. Una Firenze sull’Elba, appunto.
La percezione della Dresda opulenta e fastosa si ha esattamente nel museo del Castello. Quadri, sculture, gioielli, ninnoli vari di cui i principi amavano circondarsi. E’ la Grünes Gewölbe, spettacolare complesso museale. E’ diviso in due piani, la Historisches al piano terra con opere in un ambiente barocco perfino abbacinante sistemate su console dorate di fronte a pareti a specchio con un risultato scenografico di un certo effetto, e la Neues Grünes Gewölbe, al primo piano, mille opere preziose sistemate in teche di vetro museale antiriflesso che con un’illuminazione perfetta si possono ammirare in ogni particolare. Il biglietto si compra in anticipo perché il numero dei visitatori è limitato. Proprio davanti al castello c’è l’Hyperion Hotel Dresden am Schloss, ottimo albergo e ottimo posto per vedere il centro (Schlossstrasse 16, tel. +49 351 501200) e così a piedi te ne vai in giro per questo centro austero, con questi monumenti di pietra scura, quasi cupi, come la figura di Martin Lutero che campeggia davanti alla sua chiesa. Aspettando la sera per andare in qualche birreria o nei mille ristoranti etnici della tollerante Dresda a Neustadt, la città nuova, quasi un quartiere latino parigino. Ragazzi con i capelli colorati, musica, locali. Insomma non solo ricordi.
Non è finita perché poi con un volo repentino verso il futuro con la complicità di un bus puntuale ed efficiente come sanno essere i bus tedeschi ti catapulti verso il posto più moderno, avanzato, di Dresda. Il mondo nuovo, la rinascita, piombi dentro qualcosa che non ti aspetti nella vecchia austera città dei monumenti scuri, la “fabbrica trasparente” della Volkswagen, nel senso di automobili. La chiamano così e ne vanno fieri. Un impianto ultramoderno che sembra una clinica svizzera, con dentro operai in camice bianco che sembrano chirurghi. Qui tra i monumenti rifatti e 800 anni di storia si costruisce, o meglio si assembla, il modello più moderno e avanzato della Golf: elettrica. Tutta elettrica. I lumini del 13 febbraio ricordano il dramma, gli operai in tuta bianca della fabbrica, sono lì a gestire l’oggi.
E poi c’è la Sassonia lì intorno. Che non è un “paese” trascurabile. La campagna, le spianate verdi, le fattorie, i borghi di case tradizionali, e l’Elba, fiume incantevole, dall’apparenza dolce, liscio, ma capace di arrabbiarsi, uscire dai suoi argini con furia implacabile. E poi c’è questa cosa, inaspettata almeno come la fabbrica Volkswagen, che è la “Svizzera sassone”, Sächsischen Schweiz. Sì l’hanno chiamata così anche se un paesaggio così non mi sembra che ci sia in Svizzera. Magari in Colorado, o nello Utah. E c’è una cittadina incantevole che si chiama Pirna che chiamano la porta della Svizzera sassone. Così si passa di li per andarci. Cittadina minuscola, ma tanto tanto incantevole che il Bernardo Bellotto, di cui si è parlato, ha realizzato un dipinto straordinario “così perfetto che la piccola città sassone è entrata nella storia dell’arte accanto a città come Venezia e Roma” si dice da queste parti con una certa enfasi. In effetti il quadro, che si vede nel museo è affascinante. Mostra la piazza del paese con la vita di tutti i giorni. Gli artigiani al lavoro, i bambini che giocano, i passanti. E tutti gli anni i cittadini in costume cercano di riprodurla dal vero. La “Svizzera” è appena più in là. Si arriva in macchina attraverso una bella strada in mezzo ai boschi. Folla di visitatori, biglietto d’ingresso (è un Parco nazionale) ed ecco una serie di pinnacoli, gole, anfratti, canyon, buchi vari, rocce di arenaria, squarci tra roccioni, un paesaggio complicato unito da passerelle perché si possa vagare da un pinnacolo all’altro per godersi uno dei panorami certamente più inaspettati della Germania. Tutto a sovrastare una vallata verde e l’Elba che si piega in curve pacifiche nel verde. Per fortuna ci sono le foto che servono a descrivere tutto questo.
Ancora un pezzo di strada tra i vigneti e si arriva ad un’altra perla degli antichi fasti, il castello di Pillnitz, due palazzi giganteschi speculari, uno ridossato a una collina, l’altro sulla sponda dell’Elba. Lo stile è il tardo barocco con atmosfere cinesi. Dentro un parco di 28 ettari. C’è da passeggiarsi per un giorno intero tra “Giardini olandesi” e “Boschetti delle conifere”. La storia racconta di vari passaggi tra duchi e principi vari e amanti varie di principi e duchi. Alcuni segni su un muro esterno, piccole placche di metallo con sopra una data, raccontano delle numerose disastrose inondazioni subite da parte del fiume.
Eppure sembrano così tranquille queste acque silenziose, tanto che ci naviga un’intera flotta di battelli a ruota, stile Mississippi. L’imbarcadero è proprio dove il principe ereditario Georg IV prima, poi il di lui fratello, morto Georg, Friedrich August, e poi la di lui amante Anna Constantine von Cosel si affacciavano per dare un occhio al fiume fintamente pacioso. E vedere se era il caso di dare ordini perché si sbarrassero le porte dei piani terreni. L’ultima piena è del giugno del 2013 e aveva causato 6 miliardi di danni. Eppure mentre si scivola sulla barca del Mississippi la sensazione è proprio di tranquillità. Ogni tanto sulle rive compare un piccolo castello, una villa, un vigneto arriva fino all’acqua, una chiesa. E sull’acqua piccole barche, canoe, perfino un tizio su un paddle, sapete quella specie di grosso surf su cui si sta in piedi in precario equilibrio e si rema con una lunga pagaia, tanto è rassicurante l’Elba quando non si arrabbia. E così piano piano ricompare la sagoma frastagliata di guglie della vecchia Dresda. Gru gialle comprese.