di Paolo Bagnoli
L’intervento di un ex presidente del Consiglio richiede attenzione; di solito c’è sempre qualcosa da imparare. Se questo, poi, è del sapienziale Mario Monti di attenzione ne occorre ancora di più. Intervenendo sul Corriere della Sera del 21 gennaio, Monti ha affrontato una questione seria: la sfrontatezza di una campagna elettorale nella quale tutti promettono tutto e di più, a prescindere dalla situazione finanziaria nella quale versa il Paese. Un richiamo giusto anche se – ma se ne possono capire le ragioni –manca ogni giudizio del perché ciò avvenga; ossia l’inadeguatezza di un ceto politico cui non interessa tanto governare il Paese quanto conquistare il governo. Un ceto politico che non è classe politica. Una considerazione che avrebbe dovuto essere doverosa per dare forza al ragionamento; esso, infatti, muove da un’osservazione equivoca dietro la quale subodoriamo una concezione della democrazia un po’ particolare. Ma sono supposizioni nostre.
Monti fa una denuncia giusta che condividiamo: il dilagare delle promesse quale unica cifra del confronto elettorale in atto e di come, poiché ogni promessa, se attuata, comporterebbe dei costi considerevoli, questi li si ritengano compatibili con le condizioni rigide della nostra finanza pubblica. Ci permetta il professor Monti: ma stupirsi che in campagna elettorale si facciano delle promesse è la scoperta dell’acqua calda. È vero che mai si era assistito a una così vasta tracimazione quale quella di oggi con il solo fine di raccogliere consensi blandendo sia il cerchio che la botte. Le promesse, nelle campagne elettorali, sono sempre state presenti.
Un tempo, tuttavia, esse si inserivano in un ragionamento largo; in un’idea di Paese, di come lo si concepiva, a quali ideali esso sarebbe stato meglio si ispirasse e, di conseguenza, a quali politiche adottare perché una certa idea dell’Italia, del suo futuro, delle condizioni sociali dei suoi cittadini e così via, potesse prevalere. Oggi non è così. La demagogia, insediatasi al posto della politica, segna una deriva irresponsabile della nostra democrazia. Monti, con un po’ di buona volontà da parte del lettore, tutto questo sembra sottintenderlo, ma il ritenere il promettismo – ci sia scusata la brutta parola – alla stregua del voto di scambio non lo comprendiamo proprio. Non sappiamo come andrà il voto e siamo convinti che il consenso del cittadino elettore a favore di una formazione si baserà soprattutto per antagonismo a un’altra formazione e non per le scempiaggini che riempiono i notiziari di questi giorni. Passate le elezioni, poi, ognuno cercherà di giocare i voti ricevuti al meglio nella partita che si aprirà; le promesse rimarranno nella cronaca passata. È anche probabile che qualcuno alle promesse ci creda, ma ne dubitiamo e sicuramente saranno un’esigua minoranza.
Il punto debole del ragionamento di Monti è nel significato dell’espressione “voto di scambio”. Esso, per sua stessa natura, usa la promessa, ma garantita in quanto richiede certezza del risultato. Il voto, infatti, viene scambiato per un qualcosa di sicuro non per una avventata promessa. Se il ragionamento di Monti fosse vero, viene da domandarci: ma di cosa si dovrebbe parlare nelle campagne elettorali? Sinceramente non troviamo una risposta perché, secondo la logica del senatore a vita, tutto potrebbe essere annesso alla categoria del voto di scambio. Con ciò Monti conferma che, benché abbia guidato il governo, la politica non è riuscito proprio a capirla.
A sostegno del suo richiamo alla serietà – giusto, ma superficiale – scrive: “c’è qualcuno che si sentirebbe di promettere anche qualche sacrificio ben distribuito, qualche riduzione di rendite di posizione, qualche obiettivo e strumento in più per la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione?”. La domanda più che retorica è stantia e di vano senso comune. E qui emerge un altro vizio della politica italiana: elencare le cose da fare non avendole fatte quando chi le dice era nella posizione idonea per poterle affrontare. Fuor di alcun dubbio ci vorrebbe davvero qualche obiettivo e strumento in più per la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione; anzi, sarebbe stato più che opportuno, invece di infierire sui lavoratori e sulle loro pensioni per riassestare i conti pubblici come è avvenuto con la legge Fornero che è l’unico provvedimento che, tristemente, connota il gabinetto da lui presieduto.