Esiste solo ciò che appare. E quel che appare, per una fetta oramai ragguardevole di italiani, è che in tanti, troppi, utilizzano le funzioni pubbliche a fini privati e pochi rifiutano questo sistema. Perciò il valore primordiale dell’onestà, che in questo caso assume il significato di disinteresse al proprio successo economico, assume un valore assoluto e supera, nel giudizio di merito, quello altrettanto rilevante della competenza. I cinquestelle fatturano politicamente l’esubero della richiesta di onestà, anzi la trasformano in una rendita parassitaria avendo al cospetto un sistema di partiti che non solo non trova necessario contrastarli su questo terreno ma li lascia monopolisti assoluti di tale offerta. Cosicché l’incompetenza, acclarata o meno, la confusione di ruoli, l’iniquità della selezione della classe dirigente, l’accrocchio con cui si sono composte le liste elettorali, il velleitarismo col quale si affrontano problemi molto più che complicati, perdono – nel confronto costi-benefici – il valore che pure dovrebbero avere. Avendo il sistema tradizionale dei partiti rinunciato, in forme invero variabili, alla reputazione, lasciato colpevolmente cadere ogni credito di far bene per il bene di tutti, la scelta, banale e approssimata ma sincera e perfino comprensibile, ritorna al suo stadio primitivo: l’onestà. E chi la sfodera, esibendola attraverso anche forme minime com’è quella della restituzione di parte dell’indennità parlamentare, trova un compenso, in moneta elettorale, molto più alto di quel che gli altri competitori si attenderebbero. Per questo, io penso, il clamore suscitato dai furbetti del bonifico non avrà riscontro nelle urne. Loro, i cinquestelle, se rubano, rubano a se stessi. Gli altri no. E questo assunto, per colpa degli altri, diviene totem.