di Roberto Romano

Il tema della tassazione dei redditi investe, nella particolare congiuntura economica, lo Stato e l’organizzazione della società e dello stesso Stato. È lecito domandarsi in che modo le forze politiche intendono tassare i redditi e come affrontano il tema, sapendo bene che non siamo alla vigilia del 1963 quando si insediò la Commissione per la riforma tributaria presieduta da Cosciani.

Il dibattito politico legato alla riduzione delle tasse (per tutti o per pochi) è ormai degenerato in luoghi comuni che inficiano la credibilità di quasi tutta la classe dirigente che si candida a governare il Paese. Qualche dirigente politico lega la riduzione delle tasse alla lotta all’evasione fiscale (tra i 100 e 120 miliardi di euro), ma l’impianto del sistema fiscale nazionale, che fa acqua da tutte le parti, si pensi all’Irpef, non viene messo in discussione in nessun modo. Sebbene il contribuente italiano paghi le tasse bestemmiando lo Stato, è altrettanto vero che non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana (Gobetti, Rivoluzione Liberale, 1924). La discussione sulla necessità di allargare la base imponibile, che attiene alla redistribuzione del carico fiscale (art. 53 della Costituzione), è rimossa fin dalle sue fondamenta.

Il primo aspetto da ricordare è il seguente: le risorse mobilitate per sostenere la spesa pubblica sono proporzionali alla complessità dei sistemi economici; tanto più una economia è sviluppata, tanto più il peso del prelievo fiscale è importante. Infatti, i servizi necessari al funzionamento delle economie moderne sono direttamente proporzionali al livello di sviluppo dei singoli paesi: i paesi a capitalismo maturo registrano una pressione fiscale che varia dal 40 al 45% del Pil; i paesi più arretrati, si pensi agli stati candidati a entrare nell’Unione europea, registrano una pressione fiscale che raramente supera il 30% del Pil. Chi propone di ridurre il prelievo fiscale dovrebbe anche dire a quale idea di società fa riferimento. Quindi, il livello del prelievo fiscale non è alto o basso, piuttosto è coerente con gli obbiettivi che la società nel suo insieme persegue. Vale il monito della rivoluzione francese (Robespierre): il pagamento dell’imposta non è un dovere ma un diritto, perché nel pagamento dell’imposta sta per le classi più povere la tutela della libertà e l’indipendenza della politica. Più precisamente: l’imposta è un prelievo operato in virtù del potere sovrano per il conseguimento del “bene comune”.

Il secondo aspetto da sottolineare è legato ai presupposti di imposta: i tributi si sono sempre adattati ai modi di produzione e agli assetti patrimoniali emergenti dall’evoluzione economica della società. Se il sistema economico evolve anche il fisco deve adeguarsi. Se la società e la politica, per esempio, trovano l’inquinamento ambientale un costo per la convivenza, l’idea di un tributo specifico che incide sulla struttura produttiva (più inquinante) potrebbe trovare una coerente giustificazione, se ben congegnata.

Il terzo aspetto attiene alle proposte di riduzione della pressione fiscale: 65 miliardi per il centrodestra; 23 miliardi per il PD; 13 miliardi per il Movimento 5 stelle (in realtà sono 70); 20 miliardi per Liberi e Uguali. Queste proposte hanno dei contenuti molto diversi, ma non intercettano la questione fiscale in senso compiuto. Sebbene la pressione fiscale sia percentualmente cresciuta a partire dal 2012, se il Pil crolla di 4-5 punti il numeratore aumenterà in modo più che proporzionale, la questione di cui dobbiamo discutere è un’altra ed è molto più importante: l’imposta destinata alla redistribuzione del carico fiscale (Irpef) è diventata una imposta che incide, sostanzialmente, solo sul reddito da lavoro dipendente (l’85% del prelievo Irpef)

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