Ad avviso dei supremi giudici, la Corte di Appello di Brescia che ha condannato l'imputata deve riesaminare la vicenda per appurare se effettivamente abbia deciso di non pagare le tasse per utilizzare la liquidità per pagare gli stipendi a circa 250 tra operai e collaboratori
Tra pagare le tasse e garantire gli stipendi una imprenditrice sostiene di aver scelto scelto la seconda possibilitàe ora i giudici d’appello dovranno stabilire se è stato proprio così. È stato accolto dalla Cassazione il ricorso – contro la condanna a un anno di reclusione per omesso pagamento delle tasse come sostituto di imposta – di Vanessa Zaniboni, legale rappresentante della Lupini Targhe, azienda del settore automotive con stabilimento a Pognano (Bergamo) travolta dal fallimento dopo un investimento industriale in Messico che ha generato un crac milionario sul quale la Procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta per bancarotta fraudolenta.
Ad avviso dei supremi giudici, la Corte di Appello di Brescia che ha condannato l’imprenditrice pur avendole ridotto l’iniziale condanna a un anno e sei mesi, deve riesaminare la vicenda per appurare se effettivamente la Zaniboni abbia deciso di non pagare le tasse per utilizzare la liquidità per pagare gli stipendi a circa 250 tra operai e collaboratori ritenendo in questo modo di non compiere un illecito.
Ad avviso della Cassazione, sentenza 6737 anticipata nei giorni scorsi dal sito Cassazione.net, occorre tenere presente che l’esigenza di considerare in una luce diversa l’imprenditore che non paga il debito d’imposta è già all’attenzione della “dottrina” ed è “insorto da una globale situazione economica”, insomma dalla crisi, che apre “spazi di manovra” per non considerare più come dovuta esclusivamente alla ‘mala gestiò del singolo imprenditore la “sopravvenuta crisi di liquidità dell’impresa”. In altre parole, e non si sa se questo è il caso della Zaniboni, i giudici quando valutano il comportamento di un imprenditore in crisi che decide di pagare gli stipendi anziché le tasse, devono essere anche pronti a riconoscere la mancanza di dolo in chi ‘onestamente’ compie questa scelta con la convinzione che i lavoratori necessitino dell’immediata corresponsione “non di somme di denaro di per sé”, ma di “mezzi di sostentamento necessari” per loro e per le loro famiglie.