Il 14 febbraio scorso la procura generale di Palermo ha disposto accertamenti non ripetibili per verificare se una Smith & Wesson 357 magnum sia stata usata il 5 agosto 1989 per un delitto commesso a Villagrazia di Carini. Quello, mai risolto, del poliziotto e della giovane moglie
Era una vera santabarbara, quella scoperta nel febbraio 1996 in contrada Giambascio, a San Giuseppe Jato, nel palermitano. Qui, nel vano interrato di una casa di campagna del boss poi pentito Giovanni Brusca, furono trovati armi, munizioni, esplosivi, congegni elettrici, fucili mitragliatori, lancia granate e lancia missili di fabbricazione sovietica, mine anticarro e apparecchi radio. E poi c’era un revolver Smith & Wesson 357 magnum, contrassegnato dopo il sequestro con la sigla “C8“, su cui il 14 febbraio scorso la procura generale di Palermo ha ordinato accertamenti non ripetibili per verificare se sia stata usata il 5 agosto 1989 per un delitto commesso a Villagrazia di Carini.
È quello in cui vennero uccisi l’agente di polizia Antonino Agostino, 28 anni, e la giovane moglie, Ida Castelluccio. L’omicidio avvenne alle 19.30, di fronte alla casa estiva della famiglia Agostino, e a lungo si brancolò nel buio. Sul poliziotto, che lavorava sulle volanti del commissariato San Lorenzo, non c’erano ombre e all’epoca la calunniose voci di corridoio legarono subito il movente del duplice delitto alla pista passionale. Solo anni dopo i collaboratori di giustizia fecero il nome dei presunti autori materiali, Gaetano Scotto e Antonino Madonia, che avrebbero agito con la complicità di un ex agente di pubblica sicurezza morto nell’agosto 2017: era Giovanni Aiello, conosciuto anche come “faccia da mostro“, accusato per anni di essere in realtà un killer con il tesserino dei servizi in tasca al servizio delle cosche.
Oggi, dopo la richiesta di archiviazione dell’indagine avanzata dalla procura di Palermo e la successiva avocazione della procura generale, Scotto e Madonia sono ancora indagati per omicidio aggravato in concorso. E quella pistola potrebbe essere una chiave di volta. Su di essa, atti alla mano, è già stata effettuata una consulenza tecnica ordinaria. Ma la richiesta di procedere adesso a un esame non ripetibile, fissato per il prossimo 23 febbraio, fa intuire che gli esiti non siano stati sufficienti. I sostituti pg Nico Gozzo e Umberto de Giglio hanno affidato la nuova perizia ai consulenti Maria Concetta Allia, Biagio Manetto e Livio Milone. In particolare dovranno concentrarsi sull’anima della canna del revolver, che risulta danneggiata a causa di una resezione di pochi millimetri della volata. I consulenti, dunque, devono eliminare la parte danneggiata e vedere che tipo di impronte il resto della canna lascia sui proiettili. Infine va fatta la comparazione con i segni sui reperti dell’omicidio Agostino-Castelluccio. Sul quale si addensa un luogo particolare: l’arsenale di contrada Giambascio, appunto.
Allo stato attuale delle conoscenze, prima della richiesta di archiviazione non risulta che Giovanni Brusca avesse mai fatto riferimento all’arma del delitto del 5 agosto 1989. Quindi è possibile che, di recente, lui o altri abbiano collegato il revolver lì custodito con l’omicidio di Villagrazia di Carini. Ma ci sono altri aspetti che si intersecano e che vanno sottolineati, per quanto riguarda il deposito di San Giuseppe Jato.
Partiamo dalle indagini per la strage del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 che hanno portato il boss corleonese Totò Riina a processo a Firenze, imputato e assolto dall’accusa di essere il mandante del massacro che provocò la morte di 16 persone e il ferimento di 267. Una consulenza del 2010 affidata a Gianni Giulio Vadalà aveva attestato che l’esplosivo usato per la strage di Natale, composto da Semtex H di fabbricazione cecoslovacca, era compatibile con quello usato per attentati successivi. Si parte dalla strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985 contro il giudice Carlo Palermo (sopravvissuto per miracolo, rimasero uccisi una donna, Barbara Rizzo, e i suoi due figli gemelli di sei anni, Giuseppe e Salvatore Asta). E si arriva a quella di via D’Amelio del 19 luglio 1992 che costò la vita a Paolo Borsellino e a cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
In mezzo c’erano il fallito attentato dell’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone e quello riuscito di Capaci del 23 maggio 1992, in cui, oltre al magistrato, morirono la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Eccoli qui, i collegamenti. Nino Agostino, rispetto a quanto si credeva nel 1989, non era un semplice agente delle volanti, ma da un po’ di tempo si dedicava in segreto ad attività delicate, compresa la caccia a latitanti di mafia. Inoltre è accertato che al commissariato San Lorenzo era stata affidata la vigilanza della villa dell’Addaura nel periodo dell’attentato, che è stato scoperto il 21 giugno 1989, poche settimane prima dell’omicidio di Agostino e della moglie.
Alla veglia funebre della giovane coppia, in base ai ricordi del padre di Agostino, Vincenzo, Falcone disse che doveva la vita al figlio. Secondo il commissario Saverio Montalbano, dirigente del commissariato di San Lorenzo, il giudice poi morto a Capaci gli disse che “quest’omicidio è stato commesso contro di me e contro di te”. E per attentare alla vita del magistrato, nel giugno del 1989, furono usati candelotti di Brixia B5, come quelli rinvenuti a San Giuseppe Jato, nella tenuta di Brusca. Che, ricorda la sentenza della Corte d’assise di Firenze sulla strage del Rapido 904, disse: “Quando non si otteneva il risultato [di aggiustare processi o piegare giudici e pubblici ufficiali], si andava per le vie criminali, [uccidendo] magistrati o chi non si metteva a disposizione”.