È di pochi giorni la notizia che la giovane attrice americana Lena Dunham, di 31 anni, ha deciso di farsi togliere l’utero perché affetta da una grave forma di endometriosi, rinunciando così alla possibilità di sperimentare quello che il senso comune interpreta come il punto massimo della vita femminile, ossia la gravidanza e il parto.
Per capire fino in fondo le ragioni di una scelta così forte è necessario conoscere questa malattia che è causata dalla presenza anomala del tessuto della parete interna dell’utero, l’endometrio, in altre parti del corpo, provocando infiammazioni croniche, aderenze, cisti e soprattutto dolore pelvico, principalmente in prossimità delle mestruazioni, e che spesso diventa invalidante fino a compromettere la qualità della vita. Anche i rapporti sessuali sono dolorosi (dispareunia), influenzando uno dei più importanti canali di comunicazione e d’intimità della coppia, con tutte le possibili ripercussioni sull’intera relazione.
Dai dati diffusi dall’Endometriosis Association emerge che in tutta la popolazione mondiale il 10-17% delle donne ne è affetto e in Europa la stima raggiunge i 14 milioni; ma, nonostante la diffusione di questa patologia e le notevoli conseguenze sul piano fisico e psicologico per le donne, la medicina non offre ancora certezze sulle cause né propone trattamenti risolutivi. Inoltre la diagnosi spesso viene fatta con molto ritardo rispetto alla comparsa dei sintomi, aggiungendo un’ulteriore sofferenza in una situazione già compromessa. A volte sono gli stessi medici che, non utilizzando tecniche diagnostiche adeguate, tendono ad attribuire la patologia a una non ben specificata causa psicologica, generando così disorientamento e frustrazione nelle pazienti; altre volte succede che le donne soffrano per anni prima di consultare un medico, in quanto condizionate dalla convinzione radicata secondo cui sia normale provare dolore nel periodo mestruale. A questa convinzione si può aggiungere anche la difficoltà di parlare di problemi così intimi con il medico di famiglia o con il ginecologo.
Tuttavia al di là della particolarità dell’endometriosi, la notizia della drastica decisione della Dunham ci colpisce così tanto perché è difficile accettare che una donna rinunci volontariamente a una parte del suo corpo così importante per la sua stessa femminilità, infatti, ancora oggi l’utero sembra racchiuderne l’essenza stessa. Lo sviluppo dell’identità di genere femminile prevede una focalizzazione sul corpo e sulla sua ciclicità con tutte le emozioni positive e negative che prendono forma dagli organi genitali esterni e interni, dalle mestruazioni e dalla possibilità riproduttiva.
In questo quadro le conseguenze del dolore fisico possono estendersi fino a influenzare la percezione dell’immagine corporea che la donna ha di se stessa; infatti, mentre le sensazioni piacevoli contribuiscono alla costruzione di un’immagine corporea integrata e armoniosa, facilitando così un’identificazione col proprio corpo, le sensazioni dolorose possono determinare un’estraniazione dalla propria dimensione fisica. Il dolore pelvico cronico lamentato dalle donne affette da endometriosi può progressivamente alimentare la fantasia di essere portatrici di un corpo “malato” proprio nelle parti in cui più propriamente si esprimono la femminilità e la maternità. Un’immagine negativa della propria femminilità può così ripercuotersi negativamente anche sulla sessualità di queste donne, aggiungendosi ai disagi provocati dal dolore pelvico.
A queste motivazioni mediche si aggiungono anche delle ragioni che risiedono negli importanti cambiamenti culturali del ruolo della donna. Negli ultimi decenni molte autorevoli studiose hanno criticato l’opinione che la donna trovi la sua realizzazione più alta nella maternità, mettendo in discussione il concetto di istinto materno che è alla base di tutti i condizionamenti sulla femminilità.
Nel 1980 Elizabeth Badinter nel suo libro L’Amour en plus: histoire de l’amour maternel, sosteneva che non esiste un istinto che guida la donna alla cura di un figlio, ci può essere ma anche non essere un amore, un sentimento che si manifesta e si sviluppa nei confronti della prole. Tesi condivisa anche da Sarah Blaffer Hrdy nel suo libro del 1999 Mother Nature: Maternal Instincts and How They Shape the Human Species. Il punto di vista di Hrdy è che non esiste un istinto materno precostituito ma che questo dipende da una serie di variabili legate alle esperienze di vita e al contesto e quindi non è innato come si pensava.
Inoltre oggi le donne stanno sempre più sperimentando la consapevolezza che si può essere madri in tanti modi e non solo in quello biologico, percorrendo le strade dell’adozione ma anche quelle di uno spirito di creatività più generale che permetta loro di dedicarsi alla realizzazione di progetti e di opere impensabili in un tempo in cui l’unica realizzazione femminile era quella di avere dei figli.