“Ho bloccato il nastro su quel fotogramma. Ho cercato di guardare la scena dall’esterno. E se fosse stato tutto frutto della mia fantasia? Se mi fossi immaginato tutto? Era possibile. Era ancora possibile. Non c’erano prove. Nulla di concreto. Nessuno aveva iniziato a balbettare o era diventato rosso. Potevo basarmi soltanto sulle mie sensazioni. E le mie sensazioni mi dicevano che era quantomeno curioso che mia moglie e l’assessore van Hoogstraten non si fossero detti più nulla dall’istante in cui mi ero unito a loro, e non si fossero più guardati, nemmeno al momento dei saluti”.

Un viaggio nei meandri del dubbio e della paranoia quello raccontato da Herman Koch ne Il fosso (traduzione di Giorgio Testa; Neri Pozza Editore), un romanzo sulla disfatta morale e politica del sindaco di Amsterdam, divorato dai pregiudizi da quando alla festa per il nuovo anno ha visto la moglie, di origine straniera, e l’assessore Maarten van Hoogstraten, ridere e chiacchierare in modo complice. I preconcetti e i tabù esplodono uno dopo l’altro, facendo commettere al primo cittadino della tollerante e aperta città olandese un errore dopo l’altro. Ipocrisia, vanità, fanatismo e fissazioni diventano il mantra che scandiscono la vita del protagonista, ormai insensibile ai lutti e alle richieste d’aiuto provenienti dal suo mondo affettivo.

Il fosso

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Il fosso, costruito intorno a un punto di vista ottico che plasma anche la prospettiva psicologica dell’io narrante, è una storia di forte attualità, che mette in luce le fragilità della democrazia e della libertà di vedute di stampo occidentale. Scritto in modo pulito e avvincente, il romanzo di Herman Koch trasuda originalità nella costruzione delle turbe quotidiane che possono colpire ognuno di noi. Nessuno è innocente. Tutti, al giorno d’oggi, siamo potenziali paranoici, vittime e carnefici di un sistema massmediatico che rifocilliamo, senza mai fermarci a pensare. Fenomenale e inquietante il finale.

L’amico perduto, di Hella Haasse (traduzione e postfazione di Fulvio Ferrari; Iperborea) è una dolorosa e intensa storia di formazione che affronta il tema dell’incomunicabilità tra due culture. È la storia di un’amicizia impossibile, quella del figlio di una piantagione e di Urug, figlio di un lavorante indigeno. I bambini, poi ragazzi, crescono insieme nella incantata e verdissima Giava, nelle foreste vergini del Preanger. Esplorando e avventurandosi in quel mondo così affascinante e misterioso.

È la Storia a mettersi in mezzo: il movimento di liberazione indonesiano, la Seconda guerra mondiale e la guerra coloniale rendono obbligatoria una scelta di campo e portano i due ragazzi a confrontarsi in modo nuovo, a seguire il proprio destino di sradicati o di appartenenti al mondo nuovo, a seconda di come si voglia interpretare il loro futuro. Destini che sono uno il rovescio dell’altro e mostrano come tutto, in fondo, sia molto precario. Mondi solidi si sfaldano, identità sfumate si trasformano in consapevolezze di granito.

Questo bellissimo romanzo, scritto nel 1948, quando la lotta per l’indipendenza della Repubblica indonesiana non era ancora terminata, è una testimonianza utile a capire anche il nostro presente che ci obbliga a cercare di inglobare e criticare in modo costruttivo l’altro, a farci suggestionare e a non voltarci dall’altra parte in cerca di facili silenzi. L’autrice, nata a Giacarta quando ancora si chiamava Batavia ed era la capitale delle Indie orientali olandesi e trasferitasi nei Pesi Bassi a vent’anni, inserisce nel racconto suggestioni che senza dubbio derivano dalla sua esperienza personale, se non altro la solidarietà profonda che Haasse dimostra nei confronti del figlio del direttore della piantagione olandese, incapace di comprendere la discriminazione di stampo europeo nei confronti degli indonesiani poiché quella, nel bene e nel male, è anche la sua terra.

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