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“Abita qui, sì”, mi ha detto un fornaio. “All’angolo, gira a destra. E lì chiedi di nuovo”. Poi mi ha detto: Aspetta. E ha riempito un sacchetto di biscotti. Mi ha detto: Dille: Da parte di Hassan. “Sì, abita qui”, mi ha detto un fruttivendolo girato l’angolo. “Arriva a quell’auto rossa, e lì chiedi di nuovo”, mi ha detto. E mi ha dato dei melograni. Dille: Da parte di Shawan, mi ha detto. Arrivata all’auto rossa ho girato a destra, poi ancora a destra, poi a sinistra. E ho avuto degli altri biscotti, dei datteri. E dei limoni. Perché qui, tutti conoscono Khadija Kwheis.

Tutti, tranne noi giornalisti occidentali.

E tutti hanno una parola di stima, un gesto di affetto per lei.

Non ho mai visto nessuno trattato così, qui. Anzi. I palestinesi sono uno contro l’altro, ormai, è tutto uno sparlare, tutto un criticare tutti – ogni tanto, devi ricordargli di spiegarti un po’ anche di Israele. Anche dell’occupazione. Chi ha potere ha rispetto, sì, ma è un rispetto solo apparente, solo formale, perché funziona tutto per raccomandazioni, tutto attraverso Hamas e Fatah, che più che movimenti politici, sono reti clientelari: più che rispetto, è deferenza.

Tranne che per Khadija Kwheis. Eppure, a noi stranieri il suo nome non dice niente. Perché è un’attivista, sì. Ma è un’islamista.

Abita a Gerusalemme, e le sue idee sono radicali quanto l’occupazione, che qui, in quella che Israele considera sua capitale eterna, unica e indivisibile, è più feroce che altrove. In base al piano di partizione dell’Onu, Gerusalemme avrebbe dovuto avere uno status speciale, e non essere né araba né ebraica, ma internazionale. Poi, nel 1948, si ritrovò divisa tra un Ovest israeliano e un Est giordano. Nel 1967, Israele conquistò anche la metà est, e nel 1980, estese all’intera città la sua legislazione. Ma non la cittadinanza: ancora oggi i suoi 330mila abitanti palestinesi, il 37 percento della popolazione, non hanno che una carta di identità, un permesso di residenza che può essere revocato in qualsiasi momento. Pagano le tasse come tutti gli altri, le stesse tasse, ma solo il 10,1 percento del bilancio municipale è speso nelle loro aree: solo il 52 percento delle loro case è allacciato all’acquedotto. Decine di leggi e regolamenti cercano sostanzialmente di rendere illegale la loro vita, e di indurli così a trasferirsi altrove. E a volte, è un duello casa a casa: a volte i coloni entrano, e non vanno più via. La soluzione, per Khadija Kwheis, è una sola: è il modello Hezbollah. E cioè la guerra.

Ed è per questo che per noi giornalisti occidentali non esiste.

In questi giorni siamo tutti qui per Ahed Tamimi, la 17enne in carcere per uno schiaffo a un soldato. Perché uno schiaffo è meglio di una guerra, certo. Ma anche perché Ahed Tamimi è bionda. E senza hijab. Anche perché è così simile a noi.

Ed è sempre così. Qui come in Egitto, in Iraq, in Siria. In Tunisia. Intervistiamo solo i laici. I non violenti. Quelli che parlano inglese, che hanno studiato in Europa.

Intervistiamo solo quelli con cui è facile misurarci.

E non capiamo niente di Medio Oriente.

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