Da Singapore al Mare del Nord. La Cina sta mettendo le mani sui principali scali portuali tra Asia, Africa ed Europa. L’obiettivo è quello di colmare il deficit infrastrutturale eurasiatico e riportare in vita le antiche rotte commerciali lungo una “nuova via della seta marittima”, come annunciato dal presidente cinese Xi Jinping nell’ottobre 2013. Ma nonostante la conclamata natura “win-win” del progetto, non si attenuano le preoccupazioni degli interlocutori internazionali per la crescente influenza economica e politica di Pechino sullo scacchiere globale.

A impensierire sono soprattutto le acquisizioni aggressive con cui il Dragone ha assunto il controllo di terminal strategici dall’Oceano Indiano passando per il Mar Mediterraneo fino alle coste atlantiche. Quel genere di infrastrutture caratterizzate da una natura “dual-use”, ovvero utilizzabili con scopi pacifici (logistici e di soccorso in caso di emergenza) ma anche militari.

Secondo una recente indagine dell’International Transport Forum (ITF), ente intergovernativo che opera sotto l’egida dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2017 Pechino è arrivata a controllare un decimo dell’intera capacità portuale europea, un “grande balzo in avanti” rispetto al 6,5% dell’anno precedente. Dopo due anni di shopping sfrenato tra Grecia (Pireo), Italia (Vado Ligure) e Spagna (Bilbao e Valencia), lo scorso mese, le mire di Pechino si sono spostate sul secondo scalo più importante del Belgio, Zeebrugge, il primo dell’Europa nord-occidentale a finire sotto l’orbita cinese. Questo nonostante l’effettiva assenza di reciprocità che impedisce agli operatori stranieri di assumere quote di maggioranza nei porti della Repubblica popolare.

I protagonisti della lunga marcia marittima sono China Merchants Port Holdings e Cosco Shipping Ports, gigante nato nel 2016 dalla fusione tra China Ocean Shipping e China Shipping Company, che lo scorso anno è arrivato a inglobare Orient Overseas International, una delle compagnie di navigazione e gestione porti più grandi al mondo. A settembre, i due colossi statali vantavano rispettivamente 29 porti in 15 paesi e 47 terminal in 13 nazioni. Numeri importanti, ma tutto sommato in linea con il trend mondiale se si considera che Port of Singapore Authority opera in 15 paesi, la danese Maersk Line in 41 e la DP World di Dubai in 40.

La differenza sostanziale è che “Cosco e China Merchants Holdings – diversamente dal PSA e DP World – non agiscono secondo una logica pienamente commerciale, ma devono anche allinearsi alle politiche statali“, spiegava tempo fa ai microfoni di Forbes Olaf Merk, ricercatore dell’ITF, “da questo deriva la loro accondiscendenza a sborsare cifre che nessun altro sarebbe disposto a pagare”. Complice la facilità con cui le aziende governative hanno accesso al credito: nel 2017 Cosco ha ricevuto dalla China Development Bank non meno di 26 miliardi di dollari per progetti legati alla nuova via della seta. Spesso si tratta di investimenti che prescindono dalla loro sostenibilità economica in virtù di un evidente valore strategico, come nel caso dello sviluppo dei controversi porti di Hambantota (al centro dell’Oceano Indiano) e Gibuti (nel Corno d’Africa) dove la scorsa estate è stata inaugurata la prima base militare cinese all’estero.

Recentemente, l’economista Michele Geraci ha sottolineato come l’interesse di Pechino per lo scalo di Trieste vada letto alla luce delle ambizioni artiche del gigante asiatico, manifestate lo scorso mese con la pubblicazione del “primo libro bianco sull’Artide“. Lo scalo giuliano diventerebbe così trampolino di lancio verso il Mar Baltico e il cosiddetto passaggio a Nordest – che collega l’Oceano Pacifico con l’Atlantico accarezzando le coste della Siberia – mentre il Pireo continuerebbe a rimanere la principale porta d’accesso ai Balcani e all’Europa orientale.

Le implicazioni politiche del protagonismo cinese nel Vecchio Continente sono più che semplici speculazioni, soprattutto considerato che lo sviluppo dei porti marittimi è generalmente coronato dalla costruzione di zone economiche, aree industriali, centri commerciali e complessi residenziali, quasi sempre realizzati da società della Repubblica popolare. Alcuni giorni fa, uno studio effettuato congiuntamente dal Global Public Policy Institute e il Mercator Institute for China Studies evidenziava come – agendo sui fronti politico-economico, mediatico e accademico – “la Cina sta rapidamente aumentando la propria influenza politica in Europa e la sicurezza con cui sponsorizza i suoi ideali autoritari rappresenta una sfida significativa per la democrazia liberale così come per i valori e gli interessi” del continente. A settembre, nel discorso annuale sullo stato dell’Unione, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha elencato porti e infrastrutture energetiche tra gli asset interessati dal nuovo quadro per il controllo degli investimenti esteri nell’Unione Europea da parte di attori statali.

Intanto, da quando Pechino ha iniettato 1 miliardo di dollari nel Pireo, Atene ha già dimostrato la propria gratitudine in diverse occasioni, prima impedendo il rilascio di un comunicato congiunto dell’Ue contro la militarizzazione del Mar cinese meridionale, poi bloccando una dichiarazione di condanna contro lo stato dei diritti umani oltre la Muraglia.

di China files per ilfattoquotidiano.it

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