Parla del voto del 4 marzo ma anche della decisione che dovrà prendere la Consulta sul caso di Dj Fabo e del linguaggio spesso “oscuro” dei giuristi. Il presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi, nell’incontro con la stampa dopo la relazione sull’anno giudiziario appena concluso, interviene sul caso di Fabiano Antoniani, il 40enne milanese che ha scelto il suicidio assistito in Svizzera. E che è stato accompagnato nella clinica della Dignitas a Zurigo da Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, imputato a Milano per il reato di aiuto al suicidio, di cui la Consulta è stata chiamata a valutare la costituzionalità.
Per Grossi sono “da condannare sia l’accanimento contro la vita sia l’accanimento contro la morte. La domanda che mi pongo è: di quel signore paraplegico o era una semplice esistenza quotidiana fatta di insopportabili sofferenze? Credo che i giudici costituzionali partiranno da questa domanda”, ha detto facendo riferimento a Dj Fabo e sottolineando che non sarà presente quando la Consulta deciderà sul caso perché domani terminerà il suo mandato. “Quel caso mi fa porre tante domande perché ci sono dei valori che sono in gioco, preminenti, importanti, in una dimensione dove regna l’assoluto di etica e religione – prosegue – Il problema è enorme, ci sono valori confliggenti. Poniamoci queste domande. È stato un suicidio? O è stato semplicemente un tener conto di una sofferenza enorme?”.
Grossi interviene anche sul voto del 4 marzo, dichiarando che l’astensione “non è accettabile sul piano etico e sociale. Il voto – ha proseguito – è l’arma del popolo sovrano, partecipare al voto è un dovere del cittadino. Si voti come si vuole, ma si voti”. Per il presidente della Corte Costituzionale non c’è dubbio: “Votare è un dovere. Il fatto che ci sia uno scollamento dei cittadini con le istituzioni, uno scontento dei cittadini su cui il potere politico dovrebbe fare di più, non è una giustificazione” al non voto. Una considerazione anche sul linguaggio delle leggi, che è spesso “oscuro” e, aggiunge, “noi giuristi non teniamo conto dei nostri uditori”. I giuristi, ha proseguito, utilizzano “un linguaggio tecnico per comunicare tra loro ma si sono poco preoccupati del cittadino”. “Abbiamo tentato, a volte riuscendoci, di scrivere con chiarezza. Il nostro problema oggi è comunicare – aggiunge -. Se c’è un testo chiaro pensato anche per il cittadino comune è quello della Costituzione, noi giuristi non imitiamo i padri costituenti, in questo e dovremmo riuscirci. Ogni giurista dovrebbe caricarsi della responsabilità di una maggior chiarezza”. E conclude: “Accetto critica – prosegue – faccio mea culpa con collegio giudici, ma sottolineo che c’è un forte tentativo di rendere comunicabili nostre sentenze e pronunce”.