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Guerra in Siria, perché continuano a morire a centinaia anche senza il ‘nemico comune’ dell’Isis

In sette anni di guerra civile in Siria, uno credeva di averle già viste tutte e sperava di avere già visto il peggio. Ed invece no: messo in rotta il sedicente Stato islamico, l’Isis, il conflitto s’è tragicamente riacceso. I fragili accordi negoziali non reggono; e le promesse fatte ai curdi, protagonisti della presa di Raqqa, la capitale dell’autoproclamato Califfo, si rivelano mendaci. Si torna a morire, a centinaia, a migliaia, combattenti e civili, bambini, donne, uomini.

I miliziani jihadisti erano il nemico comune, il “minimo comune denominatore” dell’intreccio di tutte le presenze militari sul territorio siriano: la coalizione messa insieme dagli Stati Uniti, russi, iraniani, turchi. Ora, ognuno combatte, senza potersi più nascondere dietro il paravento degli integralisti, il proprio “vero” nemico. E l’Occidente si lava le mani dei curdi, lasciandoli alla mercé dei turchi.

Ad Astana, Mosca, Ankara e Teheran s’erano in qualche misura “spartiti” la Siria in aree d’influenza, con l’assenso di Damasco: ad Assad, bastava la garanzia di conservare il potere. L’America di Trump aveva “abdicato” a una presenza diplomatica, limitandosi a battere sporadicamente il pugno sul tavolo con un po’ di missili o un po’ di bombe sui “lealisti”, oltre a fornire gran parte del supporto aereo contro l’Isis.

Ma di che ci stupiamo?, se adesso i turchi attaccano i curdi, i “lealisti” attaccano quel che resta dell’opposizione – e a Nord cercano di cacciare i turchi dal loro territorio – gli americani tengono sotto tiro i “lealisti” più per difendere interessi petroliferi che l’opposizione velleitaria (e pure per cercare, tardivamente, di limitare l’influenza russa). Mosca, che ha riportato a casa il grosso dei suoi “ragazzi”, dà sempre sostegno ad Assad e accusa Washington di volere costituire “un quasi Stato” a Est dell’Eufrate. E Israele complica i giochi, in funzione anti-Iran e anti-Hezbollah.

La scorsa settimana, la coalizione, in riunioni a Roma – ministri della Difesa – e in Kuwait – ministri degli Esteri – doveva discutere a che cosa serva ancora e quali siano i suoi obiettivi. James Mattis, il capo del Pentagono, ostentava idee chiare: “Il combattimento non è finito”. E, infatti, le riunioni hanno confermato l’impegno militare comune anti-Isis, perché – affermava il segretario di Stato Rex Tillerson – gli integralisti sono “una minaccia globale”; e si sono limitate a sollecitare “moderazione” alla Turchia, un Paese della Nato, che sta massacrando curdi ad Afrin.

A Roma, Mattis ha anche posto agli alleati anche la questione della sorte dei foreign fighters catturati in Siria e in Iraq: gli Usa premono sui partner perché siano processati nei Paesi d’origine. Il problema è divenuto più urgente dopo la cattura di due britannici del famigerato gruppo dei “Beatles”, che torturava e decapitava ostaggi occidentali: gli Stati Uniti non li vogliono a Guantanamo, la Gran Bretagna non ha intenzione di rimpatriarli. Per il momento, le forze curdo-arabe della Coalizione devono gestire migliaia di jihadisti fatti prigionieri, tra cui centinaia di foreign fighters.

Quelli non catturati stanno trasferendo altrove la “minaccia globale”: molti miliziani – meno foreign fighters – si sono spostati nello Yemen, dov’è in atto un conflitto inter-arabo sciiti contro sunniti, in un contesto di alleanze tribali e internazionali molto frastagliato; molti altri in Afghanistan. Ci può essere un nesso tra l’anticipo di almeno due mesi e la recrudescenza della tradizionale “offensiva di primavera” talebana – e non solo – in Afghanistan e la diaspora degli uomini del Califfo in rotta.

Ma forse è l’Africa, e in particolare il Sahel, la terra promessa di miliziani e foreign fighters. E lì l’Italia si troverà in prima linea nella prossima fase del contrasto alla “minaccia globale”. Ma quella sarà un’altra storia e un’altra guerra.