di Roberto Iannuzzi*

Le voci sulla “morte” dell’Isis sono oltremodo esagerate, si potrebbe dire prendendo in prestito una celebre frase di Mark Twain. Anche se l’entità statuale rappresentata dal califfato, con le due capitali di Mosul in Iraq e Raqqa in Siria, non esiste più, l’organizzazione e la sua ideologia sopravvivono e rimangono vigorose.

L’eliminazione del proto-Stato califfale ha comportato un prezzo esorbitante. Essa non è avvenuta modificando le condizioni politiche, economiche e sociali che ne avevano favorito la nascita, ma semplicemente radendo al suolo queste due città, complessivamente abitate da quasi due milioni di persone prima dell’inizio dei rispettivi assedi.

Durante gli ultimi mesi del califfato, l’organizzazione ha contrabbandato grandi quantità di denaro (circa 400 milioni di dollari, secondo stime del Parlamento iracheno) fuori dalle proprie roccaforti per continuare a finanziare la propria rete. L’Isis sta tornando alle proprie radici di insurrezione armata. Non cerca al momento di controllare nuove città ma di collegare le proprie cellule e sostenere le proprie linee di rifornimento, sfruttando le debolezze del tessuto economico di Siria e Iraq.

La corruzione è un elemento tipico di ogni economia di guerra, e tali sono da anni le economie di questi due paesi. Lo scivolamento verso l’illegalità del sistema produttivo e commerciale iracheno è addirittura antecedente all’invasione americana del 2003. Durante gli anni 90 del secolo scorso, per sfuggire al soffocante embargo imposto dalla comunità internazionale sotto la guida statunitense, il regime di Saddam Hussein sviluppò reti di contrabbando attraverso i confini di Siria, Giordania e Turchia.

Il confine siro-libanese è a sua volta attraversato da traffici illeciti almeno dallo scoppio della guerra civile che devastò il Libano a partire dal 1975. La lunghissima frontiera turco-siriana è anch’essa storicamente porosa, caratterizzata da comunità come quella curda, che vivono su entrambi i lati del confine.

Lo Stato Islamico ha dunque sfruttato un’economia illegale e reti di contrabbando preesistenti. Prevedendo la propria cacciata da Mosul e Raqqa, esso ha investito in attività economiche e produttive tramite intermediari, molti dei quali sono leader tribali e uomini d’affari apparentemente onesti. I capitali dell’Isis vengono così riciclati in attività lecite che vanno dalla vendita di auto alle farmacie, ai negozi di articoli elettronici.

A ciò si aggiungono attività illegali come il traffico di droga e di armi, e il contrabbando di antichità.

Nel frattempo, i miliziani del gruppo si sono ritirati in aree desertiche e inospitali che dall’Iraq si estendono alla Siria orientale. In territorio siriano, il numero insufficiente delle forze filogovernative ha consentito a gruppi di miliziani di creare sacche anche nella parte occidentale del paese, tra Hama e Idlib. Essi hanno raggiunto queste zone spesso grazie a una vasta rete di trafficanti che consente loro di spostarsi liberamente in cambio di lauti compensi in denaro. Tali trafficanti appartengono sovente ad altri gruppi ribelli, e all’occorrenza consentono ai combattenti affiliati allo Stato Islamico di attraversare il confine, giungendo in Libano e in Turchia.

Russia e Stati Uniti si sono accusati reciprocamente di permettere alle sacche dell’Isis di prosperare nelle zone controllate dai rispettivi alleati. Del resto, a est dell’Eufrate, dove l’Isis è tuttora insediato in diversi villaggi, gli Stati Uniti e le Forze democratiche siriane a guida curda collaborano con le locali tribù arabe, molte delle quali erano apertamente schierate con lo Stato Islamico prima che quest’ultimo venisse cacciato da Raqqa.

Nella Siria nordoccidentale, l’offensiva turca contro l’enclave curda di Afrin rischia di fomentare una guerra civile curdo-araba, generando ulteriore instabilità. Ankara si serve di ribelli siriani che ha addestrato e armato in questi anni. Numerosi combattenti affiliati all’Isis si sono infiltrati nella zona cuscinetto controllata dai ribelli filo-turchi sul confine siriano settentrionale. Molti hanno attraversato la frontiera.

Ankara negli ultimi anni aveva combattuto il fenomeno jihadista, a seguito dell’ondata terroristica che aveva investito molte città turche. Tuttavia, il governo Erdogan non sembra aver mai realmente interrotto la propria collaborazione con il gruppo qaedista di Al-Nusra (successivamente divenuto Ha’yat Tahrir al-Sham) nella provincia siriana di Idlib.

La presenza jihadista sui social media turchi appare addirittura in crescita. A seguito della campagna militare di Afrin (che alcuni esponenti governativi hanno cominciato a definire “jihad”), la Turchia ha mostrato una rinnovata disponibilità a chiudere un occhio di fronte alle derive estremiste dei ribelli suoi alleati. In Siria l’inasprimento delle tensioni fra attori regionali e internazionali sta dando vita a una nuova fase del conflitto. In un simile contesto, coloro che coltivano l’ideologia dello Stato Islamico continueranno a trovare rifugio e mezzi per mantenere viva la loro organizzazione.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (aprile 2017)

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