Mai come ora è vitale sottrarsi al richiamo della violenza. E’ vitale per la democrazia riempire lo spazio pubblico di parole, presenza pacifica di corpi pensanti, musica, poesia, citazioni della Costituzione, inviti a studiarla e rileggerla insieme, come hanno fatto giovani e ragazze al sit-in pacifico nel finale della manifestazione antifascista di Bologna, dopo gli scontri testosteronici con la polizia, che si sono ripetuti con altrettanta violenza ieri a Torino.
Fare il vuoto intorno al fascismo, e a chi lo propugna, è il senso più profondo della cultura antifascista. Proprio perché l’estetica, la retorica e l’etica fascista inneggiano all’azione repentina contro il pensiero, alle armi contro le parole, all’ingiuria contro l’argomentazione, al sacrificio del sangue contro la costruttiva e vitale quotidianità.
Se l’antifascismo abdicherà alla sua funzione politica, storica, educativa e maieutica di argine alla violenza avrà fallito, e questa tragica bancarotta sarà la fine della democrazia per la quale le partigiane e i partigiani hanno speso la loro vita, e in molte e molti l’hanno anche perduta. Fare il vuoto intorno alla violenza, cioè sottrarre ossigeno all’onda di odio e di rancore che rapidamente rischia di travolgerci: questo è uno dei compiti di chi si richiama all’antifascismo.
La storia ci insegna che i totalitarismi si nutrono, per rafforzarsi, anche della rabbia di chi lotta contro l’ingiustizia, e frana dinanzi al lato oscuro della forza, cedendo alla mimesi della violenza, talvolta anche nel nome della giustizia. E’ un tragico paradosso, che in modo colorito ma efficace alcune femministe antimilitariste hanno tradotto così: bombing for peace is like fucking for verginity.
La forza simbolica della proposta di sciopero della sessualità avanzata da Lisistrata nella celebre commedia di Aristofane non è, banalmente, nella letterale sottrazione del corpo al piacere, ma nell’indicazione della strada da percorrere in alternativa all’uso della guerra e delle armi: infatti il passo più politicamente rivoluzionario dell’antica opera greca pacifista e nonviolenta (forse la sola nella quale la protagonista non agisce dentro uno spazio tragico) è quello nel quale Lisistrata, davanti al guerriero avvolto nell’armatura, gli spiega la pratica della democrazia e della diplomazia, rendendolo ridicolo nella sua bellica inefficacia.
L’illusione che esista una violenza sbagliata e un’altra giusta (la nostra) è una trappola fin troppo evidente: sappiamo che rispondere alla violenza con la violenza serve solo a farla vincere. La retorica fascista si fa forte con un corredo simbolico elementare e potentemente seduttivo, che punta ad eccitare l’azione immediata, il virilismo futurista, invitando all’umiliazione di chi non reagisce in modo speculare. Questa semplificante strumentazione rischia di essere adottata anche da chi sostiene di lottare contro il rinascente totalitarismo di destra.
I fascisti di casa nostra si sono fatti forza, dopo la teppistica aggressione di Palermo, per motivare il blitz televisivo come legittimo. Per questo non è ammissibile alcuno slittamento verso la violenza da parte di chi si richiama all’antifascismo, mai e in particolare in questo momento. Citando Audre Lorde: “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. Tirare un mattone o adoperarlo per sostenere un tavolo basculante sono scelte che definiscono l’orizzonte che si vuole proporre.
Robin Morgan, autrice de Il demone amante. Sessualità del terrorismo, chiede alle donne, specie a quelle di sinistra, di interrogarsi sul fascino che esercita sul genere femminile la violenza rivoluzionaria incarnata dal condottiero che parla del futuro regno di miele imbracciando un fucile. In questa logica il fine giustifica i mezzi, pur se identici a quelli del potere dominante. Morgan invita anche a riflettere sul fatto che una democrazia, se nasce da un gesto di violenza, (fosse anche quello di uccidere il dittatore più odioso) porterà comunque i segni di quel sangue versato.
Mentre negli Stati Uniti lo scellerato Donald Trump insiste nel sostenere il mercato delle armi, una lezione di democrazia e di speranza arriva dalle migliaia di giovani che, a fianco delle persone adulte di riferimento, finalmente si ribellano alla normalizzazione della violenza armata propugnata dalla destra come legittima difesa. E a proposito di legittima difesa: dare una lezione all’esponente fascista sostenendo che il suo impressionante curriculum aggressivo e razzista chiami l’agguato e le botte, come accaduto a Palermo lo sarebbe? C’è chi ha sostenuto che “il fascista se l’è cercata”. Ma “se l’è cercata” è la frase che spesso si sente dire dopo uno stupro, giustificando la violenza sulla donna violata. Che dovrebbero fare, quindi, le donne? A fronte della mattanza femminicida (realtà di carne e sangue, una donna uccisa da uomini che le conoscono ogni tre giorni in Italia) sarebbe legittimo organizzare gruppi di punishers che individuano i maltrattanti e li picchiano? La chiameremmo giustizia? Che deriva allarmante, quella del richiamo alla legge del taglione.
Social e memoria, ormai saldati, rischiano di abituarci alla cancellazione della storia, ma connettere significa ricordare: i totalitarismi trovano terreno fertile e attecchiscono (diventando persistenti per decenni nelle società umane) grazie alla maggioranza silenziosa che sottovaluta, minimizza, giustifica, condisce di se e di ma i gesti violenti, e non ricorda il passato. Prima che sia davvero troppo tardi invito a leggere e a trovare ispirazione nel Credo di una donna di Robin Morgan, perché, come suggerisce la poeta, abbiamo un bisogno disperato della mano che si alza solo nel saluto.