Se ne andò di casa una mattina con una decina di amici che lo accompagnarono in aeroporto. “Ricordo che uno di loro, stando dall’altra parte della strada, urlò a mia madre: ‘’Nse preoccupi signo’, che tra un mese a rista’ qua’”. Era partito per imparare l’inglese e lo spagnolo: nessuna si aspettava che Francesco Cipolla sarebbe sarebbe stato lontano da Roma quasi dieci anni. Prima nel Regno Unito per perfezionare la lingua, poi in Olanda e in Spagna come “zingaro-cameriere” e da tre anni a Londra dove – partito come magazziniere di un noto brand di abbigliamento femminile – ora il 29enne si occupa dell’intero processo di distribuzione e produzione di accessori per il mercato europeo e asiatico. “Non ho mai avuto un buon rapporto con lo studio e il progetto iniziale era di partire per imparare le lingue”.
Infatti, Francesco a Roma aveva un lavoro e si pagava già un affitto a soli 18 anni. La scelta di fare le valigie, quindi, non era collegata a una necessità lavorativa ma alla voglia di allargare i suoi orizzonti, “odorare la vita, sbatterci contro, morderla: semplicemente avevo fame di qualcosa che non era cibo”. E, oltre a riempire le sue “voglie di vita”, in questi dieci anni Francesco è anche riuscito a passare dal magazzino al posto in business. “Tra viaggi di piacere e di lavoro tra Europa e Cina nessuno ci capisce più nulla. La domanda più frequente che mi fanno quando mi chiamano è ‘In che parte del mondo ti trovi ora?’”.
Socializzare a Londra è molto difficile. Puoi chiacchierare con mezzo quartiere quando esci, ma il giorno dopo difficilmente ti sentirai arricchito
Eppure vivere a Londra non è sempre facile. “Qui la parola busy (indaffarato, occupato, ndr) è uno stato mentale”. Non è facile farsi degli amici, nella capitale inglese. “Socializzare a Londra è molto difficile. Puoi chiacchierare con mezzo quartiere quando esci, ma il giorno dopo difficilmente ti sentirai arricchito”. E per uscire da questa “sofferenza”, il 29enne romano non ha fatto altro se non tuffarsi completamente nel lavoro. “Lavoravo giorno e notte, e se possibile anche i weekend, così ero troppo stanco per pensare”. E intanto inizia a mancarti il sole, la tua famiglia, e allo stesso momento iniziano ad arrivare le prime soddisfazioni.
“Consiglio di andare all’estero perché è un’esperienza che fa crescere e che forma, ma ci vuole testa e fortuna, altrimenti è un attimo perdersi nei vortici della depressione o del troppo divertimento”. Ed ecco tornargli in mente la frase che il suo amico aveva detto a sua madre quasi dieci anni addietro, prima di accompagnarlo all’aeroporto. “La maggior parte delle persone, come diceva quel mio amico, dopo un mese torna, con la differenza che ha un paio di mila euro in meno”. E chi riesce a restare cosa ci guadagna? “La libertà di avere scelto della propria vita. Essere liberi è la sensazione più bella”.
Gli italiani vanno all’estero non per lasciare il loro paese affondare, ma per spirito di sopravvivenza
Tuttavia, mentre la sua carriera sta crescendo nel Regno Unito, Francesco non esclude di tornare in Italia un giorno, “perché è la mia terra e ci sono molto attaccato, per non dire geloso”. Gli manca la qualità della vita intesa come cibo e clima. Eppure, chi si è trasferito all’estero non può scegliere di fare ritorno in una casa in cui ci sono alte probabilità di “essere disoccupati o finire ad arrangiarsi”. “Il pesce puzza sempre dalla testa, è in alto il problema”. Infatti, secondo il 29enne, i cosiddetti cervelli sono in fuga dall’Italia perché il governo ha fatto in modo di farli fuggire. “La politica sta affondando gli italiani con tasse e contratti ridicoli. Gli italiani vanno all’estero non per lasciare il loro paese affondare, ma per spirito di sopravvivenza”. Inoltre, “dopo che ti abitui a certi meccanismi dei paesi esteri è difficile accettare il ritorno all’età della pietra”. Eppure, se accantona la mente per qualche istante, mentre parla il manager romano si rende conto che il volo di sola andata per il Colosseo lo prenderebbe eccome se si lasciasse muovere solo dal suo cuore. “Roma per me è tutto: famiglia, infanzia, affetti e romanità”.
E quando nel south west londinese la malinconia si fa insostenibile, spuntano dei versi in romanesco. “Mi ricordo quand’ero piccoletto / che me cantavi sempre ‘mio ber moretto’, / dicevi ‘Sei er bastone de la vecchiaia mia’, / me davi ‘na carammella o ‘n cioccolatino… / ‘Nun je lo di’ alla figlia mia!’”. La lettura si interrompe. Lo sguardo va al titolo della poesia. “Pe’ nonnetta mia”. Perché, anche se sono dieci anni che Roma è lontana, i sentimenti continuano a uscire in romanesco.