Chiesti anche 900mila euro di sanzione per la stessa Eni e per Saipem, alla sbarra in qualità di enti, e 8 anni per Farid Noureddine Bedjaoui, fiduciario dell’allora ministro algerino dell’energia, ritenuto con il suo entourage destinatario delle mazzette
Il pm di Milano Isidoro Palma ha chiesto 6 anni e 4 mesi di carcere per Paolo Scaroni, ex numero uno di Eni, tra gli imputati per corruzione internazionale al processo in corso a Milano con al centro presunte tangenti pagate in Algeria in cambio di appalti. Chiesti anche 900mila euro di sanzione per la stessa Eni e per Saipem, alla sbarra in qualità di enti, e 8 anni per Farid Noureddine Bedjaoui, fiduciario dell’allora ministro algerino dell’energia, ritenuto con il suo entourage destinatario delle mazzette.
Dopo l’annullamento del proscioglimento in Cassazione i pm di Milano Fabio De Pasquale e Isidoro Palma avevano ribadito la richiesta di processo per Scaroni, per Antonio Vella, ex responsabile per il Nord Africa del gruppo petrolifero italiano e per la stessa multinazionale, ritornati ad essere imputati per decisione degli ermellini. Cuore del processo l’ipotizzata maxi tangente da 198 milioni di euro che sarebbe stata pagata in più tranche dalla società del cane a sei zampe, dal 2007 al 2010, al ministro dell’Energia algerino Chekib Khelil e al suo entourage in cambio di appalti del valore di otto miliardi di euro. Ma c’è anche un secondo episodio contestato: 41 milioni per avere il via libera da Khelil per l’acquisito di First Calgary Petroleum che in joint-venture con la società statale Sonatrach deteneva il giacimento di gas a Menzel. La maxi bustrealla, per il pm, sarebbe stata pagata da Saipem attraverso contratti con Pearl Partners – società con base a Hong Kong e controllata da Bedjaoui – che, però per la procura “non ha effettuato alcun lavoro o consulenza tale da giustificare un pagamento da 197 milioni”. Non c’è “alcuna prova – aveva sottolineato Palma nell’udienza precedente – che Pearl Partners fornisse a Saipem consulenze per la partecipazione alle gare in Algeria o per la formulazione delle offerte”. A suo dire, si tratterebbe quindi di contratti fittizi per permettere il trasferimento delle ingenti somme di denaro dalla società italiana agli intermediari algerini dietro i quali si celava il ministro dell’Energia. Il rappresentante dell’accusa aveva puntato il dito anche contro l’audit interno al gruppo Saipem: non sarebbero stati svolti i controlli opportuni sebbene già “nel 2010 ci furono le prime avvisaglie su problemi” relativi ai contratti in Algeria, con l’avvio di una inchiesta da parte delle autorità giudiziarie del Paese nordafricano.