È un cambiamento genetico dell'associazione mafiosa quello che mettono nero su bianco i giudici della corte di Appello di Bologna, nelle motivazioni con cui avevano in gran parte confermato le decisioni del gup per 60 imputati giudicati il rito abbreviato. Tra le posizioni modificate c'era quella dell’ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, prima assolto e poi condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa
Una sorta di borghesia mafiosa che diffondendosi nel Nord Italia ha mutato il proprio dna. Una piovra che si è talmente adattata al nuovo contesto da modificare i propri metodi. È un cambiamento genetico della ‘ndrangheta quello che mettono nero su bianco i giudici della corte di Appello di Bologna, nelle motivazioni della sentenza del processo Aemilia. Il 12 settembre 2017 i giudici del processo di secondo grado avevano in gran parte confermato le decisioni del gup per 60 imputati che avevano scelto il rito abbreviato. Tra le posizioni modificate rispetto al primo grado c’è quella dell’ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, prima assolto e poi condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Per i giudici l’esponente del partito di Silvio Berlusconi “costituiva un tassello essenziale per l’esecuzione del programma criminale del sodalizio operante in Emilia cui forniva effettivamente e concretamente una cooperazione ben precisa, efficace e consapevole“. Pagliani, secondo la corte, “non solo conosceva parte significativa dei sodali, la caratura e caratteristica criminale dei medesimi e l’ideazione da parte degli stessi di un progetto di attacco politico-mediatico alle massime autorità locali”, ma “aveva dato il proprio assenso al programma” che prevedeva “di ribellarsi” contro le interdittive emanate nei loro confronti dal prefetto, “contribuendo efficacemente per la propria parte a sdoganare pubblicamente la tesi del gruppo”.
Ma non solo. Perche nelle oltre 1.400 pagine di motivazioni i giudici tracciano il profilo dell’organizzazione criminale calabrese che in Emilia “si muove in modo diverso rispetto alle regole tradizionali, senza necessità di ricorrere, almeno apparentemente, a riti e formule di affiliazione” e invece per agire “necessita del supporto tecnico e dell’appoggio operativo di commercialisti, fiscalisti, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti e rappresentanti della politica locale”. In questo senso la corte parla di una “borghesia mafiosa esistente al nord, composta da imprenditori, liberi professionisti e politici, che fa affari con le cosche, ricercandone addirittura il contatto in ragione delle ampie opportunità offerte dall’appoggio dell’organizzazione”. Il pagamento del “fiore“, cioé della percentuale alla “casa madre“, la “mazzetta” o l’estorsione “sono il mezzo con il quale l’imprenditore e il politico ottengono la protezione e il vantaggio che la cosca può offrire”.
Quella che si è verificata è una vera e propria compenetrazione tra la borghesia del luogo e i mafiosi venuti dal Sud. Un’unione che ha inciso profondamente nella mutazione genetica dell’associazione criminale. “Il progressivo innalzamento di livello dell’associazione – si legge nelle motivazioni – si rendeva ancora più evidente con il sempre più ampio e professionale inserimento dei sodali nel mondo degli affari sino a condurre alla formazione di una vera e propria holding criminale di rilievo internazionale”. In pratica “lo spietato e brutale sistema di approccio degli anni ’90” è stato sostituito da uno “più sottile“, con metodi camuffati da un’attività imprenditoriale attiva in vari settori: dal mondo dell’edilizia, ai trasporti, ai rifiuti al movimento terra, dei quali il sodalizio calabro-emiliano assumeva in breve tempo il sostanziale monopolio”.
È in questo modo che nel corso degli anni la ‘ndrangheta “pur manifestando costantemente la propria presenza in Emilia con numerosissimi episodi intimidatori e fatti di sangue, mostrava la propria potenza organizzativa con una peculiare capacità reattiva e sapeva al contempo operare sempre più a 360 gradi, con una sorprendente abilità mimetica per meglio infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale sano della regione”.
I giudici poi spiegano come le i nuclei criminali di stanza in Emilia si muovessero in regime di semiautonomia rispetto alle famiglie calabresi. Il gruppo capeggiato da Nicolino Sarcone, condannato a 15 anni, pur mantenendo un legame con la “casa madre” calabrese, e in particolare con il boss Nicolino Grande Aracri, aveva “piena autonomia decisionale sugli affari da concludere”. Grande Aracri era infatti sempre informato degli affari trattati al nord o anche all’estero, oltre che uno dei principali se non l’unico finanziatore del business e a lui andava una percentuale dei profitti. Non era tuttavia da lui, osservano i giudici “che dipendeva l’ideazione o la decisione di quali imprese assoggettare in Emilia né di quali occasioni economiche sfruttare o creare”.