La decisione è stata accolta dal mondo degli affari con speranza e preoccupazione: mentre la stabilità assicurata dall’assolutismo di Xi permetterà di portare avanti le riforme economiche senza intoppi, la mancanza di check and balance espone il paese a pericolosi inciampi, creando un clima di diffidenza tra la comunità del business internazionale
La Cina balla sul ciglio del burrone: da una parte si staglia un futuro glorioso, dall’altra il caos. A dettare le sorti della seconda economia mondiale la controversa proposta avanzata durante il plenum di gennaio (ma annunciata solo domenica) dal Comitato centrale del Partito comunista cinese di emendare la costituzione, così da rimuovere il limite di due mandati per il presidente e il vicepresidente della Repubblica popolare. La revisione – una volta ratificata alle prossime “due sessioni” (l’annuale incontro parlamentare in programma per la prossima settimana) – permetterà a Xi Jinping di rimanere in carica oltre il 2023, quando scadrà il secondo mandato quinquennale. Forse per sempre. Uno scenario da tempo oggetto di dibattito tra gli analisti, allarmati dal lento scardinamento dei meccanismi di condivisione del potere introdotti dall’establishment d’oltre Muraglia con la morte di Mao Zedong.
Da quando è assurto alla guida del gigante asiatico nel 2012, il leader cinese ha rapidamente consolidato la propria posizione eliminando gli avversari politici nell’ambito di una spietata campagna anticorruzione volta ufficialmente a mondare il Partito dagli elementi depravati. Al contempo, ha collezionato una lista di titoli onorifici (tra cui “core leader” e “lingxiu”) – mai raggiunti dal suo immediato predecessore Hu Jintao – che lo pongono virtualmente alla pari di Mao e Deng Xiaoping. Con la differenza sostanziali che Xi si trova a ricoprirli in un periodo storico in cui la Cina ha ben altro ruolo sullo scacchiere internazionale. È qui che potrebbe nascondersi la vera motivazione per il prolungamento forzato della presidenza, un istituto perlopiù cerimoniale e secondario rispetto alle posizioni apicali di segretario generale del Pcc e presidente della Commissione centrale militare (CMC), non soggette a limiti temporali ed entrambe già saldamente nelle mani di Xi.
Come spiega il Global Times, “rimuovere il limite dei due incarichi può aiutare a mantenere il sistema della trinità (segretario del partito, capo della CMC e presidente) e migliorare l’istituzione della leadership del Pcc e della nazione” stessa. L’agenzia di stampa statale Xinhua aggiunge che “l’attuale struttura del Partito e delle istituzioni statali non è più sufficiente a soddisfare i requisiti per i vari compiti nella nuova era”, lanciata da Xi Jinping a ottobre durante il 19esimo Congresso del Pcc. Insomma, il “sogno cinese” prevede il raggiungimento di obiettivi di lungo termine che necessitano una guida stabile e duratura. Contrario alla filosofia di Mao (che lasciò presto a Liu Shaoqi l’incarico di capo di Stato) e Deng (leader de facto ma mai presidente), l’accentramento delle tre cariche fu adottato soltanto con il governo di Jiang Zemin (1993-2003), all’indomani del massacro di piazza Tian’anmen. Ma come chiarisce al South China Morning Post David Shambaugh, professore di scienze politiche e affari internazionali presso la George Washington University, è oggi precondizione necessaria affinché Xi possa rappresentare la Cina all’estero, interloquendo con gli altri capi di Stato da pari a pari. Compito che non sarebbe in grado di svolgere pur mantenendo gli altri due ruoli di leader del Partito e dell’esercito. Basta considerare il ciclopico progetto Nuova Via della Seta e la fitta agenda internazionale (che comprende ben 28 viaggi in oltre 50 paesi, più di qualsiasi predecessore) per capire quanto Xi abbia a cuore la gestione della politica estera.
L’emendamento della costituzione interesserà anche l’inserimento del contributo ideologico di Xi (“Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinese per una nuova era”) e il riconoscimento ufficiale della Commissione nazionale di supervisione, il nuovo “ministero” anticorruzione preposto non più soltanto al controllo dell’integrità disciplinare dei membri del Partito ma anche dei dipendenti statali. La nascita della super-agenzia coinciderà probabilmente con la nomina a vicepresidente dell’ex zar dell’anticorruzione Wang Qishan, nonostante i sopraggiunti limiti di età. Considerato uno dei più fidati alleati di Xi, l’alto funzionario potrà così usufruire di una carica tradizionalmente poco influente ma che ci si attende assumerà maggiori poteri alla luce dei nuovi equilibri interni. L’annuncio della longevità politica di Xi arriva mentre il Partito si riunisce per un inatteso terzo plenum volto a fare chiarezza sulle nomine governative (che verranno ratificate dal parlamento la prossima settimana) e mentre il braccio destro di Xi, l’economista Liu He, si trova negli Usa per dirimere i contenziosi commerciali tra le due superpotenze. Verosimilmente, anche per ragguagliare la controparte statunitense su quanto sta avvenendo ai vertici della gerarchia comunista.
All’estero e in casa, la decisione di rimuovere il limite dei due mandati presidenziali è stata accolta contemporaneamente con speranza e preoccupazione. Mentre, secondo alcuni esperti intervistati da Bloomberg, la stabilità assicurata dall'”assolutismo” di Xi permetterà di portare avanti le riforme economiche e finanziarie senza intoppi (contenimento del debito in primis), la mancanza di “check and balance” espone il paese a pericolosi inciampi, creando un clima di diffidenza tra la comunità del business internazionale. E non solo. In una rara dimostrazione di dissenso, il ceto intellettuale ha paragonato la concentrazione del potere nelle mani di Xi a un “tradimento”, definendola il sintomo della “sfiducia (dell’élite) nei confronti del popolo cinese“. Una lettera aperta a firma dell’ex editor del quotidiano statale China Youth Daily chiede all’Assemblea nazionale del popolo (il massimo organo legislativo) di votare contro l’estensione illimitata del mandato presidenziale, mettendo in evidenza come i limiti imposti dalla costituzione del 1982 siano fin’oggi serviti a evitare situazioni di caos e concentrazione del potere sperimentate durante la Rivoluzione culturale. È inusuale assistere a critiche così dirette nei confronti della leadership cinese. Negli ultimi due giorni, tanto i media statali quanto i censori si sono impegnati a limitare il dibattito popolare dopo l’emergere di fastidiosi accostamenti tra la Cina di Xi e la Corea del Nord. Secondo il progetto Weiboscope, nella giornata di domenica la censura sul Twitter cinese Weibo ha raggiunto il picco più alto in tre mesi.