Mario Costeja González non se lo ricorda nessuno, ma c’è chi lo considera l’eroe del diritto all’oblio. Costeja González, la cui epopea giudiziaria è ricordata solo da pochi addetti ai lavori nonostante l’immortalità della sentenza che lo (e ci) riguarda, quattro anni dopo essersi rivolto alla Agencia Española de Protección de Datos nel 2010, ha ottenuto la “deindicizzazione” di una pagina web che raccontava una sua vicenda personale ormai chiusa e la cui immanenza in Rete risultava pregiudizievole.
La storica decisione della Corte di Giustizia ha innescato una cornucopia di istanze che hanno letteralmente sommerso gli uffici di Google. Dal 28 maggio 2014 ai nostri giorni sono state presentate 655.429 richieste per complessivi 2.439.892 di url (i numeri sono in aggiornamento) da escludere dal novero di risposte da mettere a disposizione degli utenti: non un dato casuale, ma il conteggio preciso pubblicato sul report di Google in materia di trasparenza reso noto il 27 Febbraio 2018.
Il ciclopico volume di richieste non comporta alcun obbligo immediato per il motore di ricerca che provvede a nominare un revisore competente per la valutazione di ciascun caso: tocca a questa persona verificare se l’informazione oggetto di richiesta di deindicizzazione è effettivamente “inaccurata, inadeguata, irrilevante o eccessiva”. Questa impostazione ha portato alla cancellazione del 43,3 per cento dei link oggetto di istanza di eliminazione.
Google ha diritto di rifiutare la rimozione dei link se ritiene che esista un interesse pubblico a che le informazioni permangano nei risultati della ricerca. A titolo di esempio, notizie a sfondo commerciale potrebbero essere utili per i potenziali clienti oppure la narrazione di un crimine violento potrebbe risultare di interesse per una platea indiscriminata di pubblico. I criteri in questione rendono comprensibile la circostanza che mette in risalto che Google non ha rimosso il 56,7% degli Url (addirittura il 60,2% di quelli in Gran Bretagna).
L’azienda che gestisce il motore di ricerca ha, dal 2016, tenuto traccia della tipologia dei contenuti oggetto di rimozione dai risultati: le statistiche realizzate evidenziano che il 18,1% ha riguardato notizie o elementi di carattere professionale e il 6% era relativo a pagine web concernenti il compimento di reati. Il 33% dei link era riconducibile a social network e a piattaforme di informazioni personali, mentre il 20% faceva capo a pagine (di giornali o di siti governativi) in cui era riportate le vicende giudiziarie del richiedente la deindicizzazione.
I britannici e i nostri connazionali hanno mostrato un interesse tre volte il valore medio rispetto le notizie della stampa. Francesi e tedeschi, invece, si sono distinti per le istanze di rimozione dei link di social media e di pagine di raccolte di profili informativi personali.
I più vivaci nel far valere il diritto all’oblio sono stati Francia, Germania e Gran Bretagna da cui è scoccato il 51% delle richieste di cancellazione di link dai risultati di ricerca.
La hit parade dei siti web oggetto del maggior numero di richieste vede in testa la directory professionale francese annuaire.118712.fr con 7.701 link rimossi a fronte di 10.858 richieste, seguita da Facebook (6.846 eliminazioni su 16.623 istanze di deindicizzazione), scontent.cdninstagram.com (6.291 su 11.108), Twitter (5.476/12.396), Google Plus (3.316/12.000) e YouTube (3.293/9.250).
@Umberto_Rapetto