La scomparsa di Davide Astori è un’assurda tragedia. Come la morte di qualsiasi ragazzo di 30 anni, che se ne va senza motivo da un giorno all’altro, lasciando compagna e figlia piccola. Il fatto che Astori fosse un calciatore non la rende più speciale, o meno straziante. Per questo il calcio doveva continuare a giocare, come ha sempre fatto in passato. Certo, non si poteva pretendere che i compagni di squadra della Fiorentina scendessero in campo come nulla fosse contro l’Udinese: il rinvio in quel caso è sacrosanto, come forse anche per Genoa–Cagliari (formazione di cui è stato storico capitano), che avrebbe dovuto iniziare a pochi minuti dalla notizia. Ma fermare tutto il campionato di Serie A, e pure quello di Serie B (le categorie inferiori no, però: i Dilettanti sono forse meno sensibili?) è quantomeno discutibile.
La proposta non poteva che essere avanzata dal sindacalista Tommasi, ed è stata subito accolta dal commissario della Lega Calcio, Giovanni Malagò: “La decisione è stata doverosa. Il calcio che io immagino e che voglio è un calcio di valori, ideali e rispetto non solo dell’atleta ma dell’uomo”. La sostanza, però, è un po’ diversa dalle apparenze. Innanzitutto il rinvio in blocco comporta una serie di problemi organizzativi: quando recuperare il turno in un calendario già così ingolfato? In Serie B, poi, tante formazioni già venivano da un rinvio per maltempo, e così si troveranno a star ferme per quasi due settimane, condizionando risultati e classifica. Per non parlare della sicurezza: per Avellino-Bari, gara considerata ad alto rischio, era stata autorizzata la trasferta di 800 tifosi ospiti, che si sono ritrovati nella città campana a due ore dal fischio d’inizio senza più un match da vedere e uno stadio in cui essere “controllati”. Ma queste sono tutte questioni di ordine pratico, che possono e devono anche giustamente passare in secondo piano davanti alle tragedie, se ce ne fosse un vero motivo. Il problema è un altro.
“Lo spettacolo deve andare avanti”: duro da dire, difficile da accettare. Ma ce l’hanno insegnato loro, in tante occasioni. 18 gennaio 2017, valanga di Rigopiano, 29 morti: dopo 3 giorni la Serie A è tutta in campo, compreso il Pescara, la squadra di quei territori scossi dalla tragedia (il tecnico Oddo aveva manifestato più di un dubbio sull’opportunità di giocare). Oppure 24 agosto 2016: il terremoto di Amatrice fa 300 vittime, ma anche in questo caso nessuno ritiene necessario bloccare i campionati. Con il lutto al braccio, il minuto di silenzio, il calcio ha sempre giocato. E non solo in Italia, pure all’estero: in Francia, ad esempio, durante l’attentato di Saint-Denis (questioni di sicurezza) ma pure dopo la cosiddetta “strage di Parigi” (l’iniziale ipotesi di sospendere la Ligue 1 fu subito cassata). Stavolta per la tragica scomparsa di un calciatore è andata diversamente: la disparità di comportamento è evidente.
Dicono che tanti giocatori erano turbati, perché conoscevano personalmente o indirettamente Astori, e non se la sentivano di giocare. Con la morte nel cuore e magari senza esultare, avrebbero dovuto fare il loro dovere, da bravi professionisti. Come farà in un caso analogo qualsiasi giornalista, medico, insegnante, avvocato, commesso, spazzino, che andrà a lavoro perché i giornali continueranno ad uscire, le imprese a funzionare, gli ospedali e le scuole a offrire il loro servizio. Il punto è proprio questo: non essendoci ragioni specifiche per rinviare le singole partite, la sospensione in blocco diventa immotivata. Se infatti è una questione di sensibilità collettiva, allora uno spettacolo futile come il pallone dovrebbe fermarsi sempre, per ogni tragedia, attentato, calamità, o anche la semplice morte di un ragazzo in fabbrica. Se invece è solo una questione di sentimenti personali, più giusto sarebbe stato continuare a giocare. Perché altrimenti più che un atto di rispetto, pare solo una dimostrazione di buonismo.