La riconferma del governatore alla guida della Pisana è stata la vittoria prima di tutto di un modello di governo che riunisce in una sorta di restaurazione dell’Ulivo le associazioni cattoliche e i centri sociali, le cooperative bianche e i movimenti per la casa, senza mai mettersi contro i sindacati, i comitati, gli ambientalisti. Ora per "Nicola il calcolatore" potrebbe essere arrivato il tempo di puntare alla guida di quel che rimane del Partito Democratico
Nicola Zingaretti si candida a essere l’ultimo baluardo del centrosinistra in Italia. Il governatore è stato il primo presidente della storia della Regione Lazio a ottenere dagli elettori un secondo mandato in una regione fin qui “maledetta”. L’unica vera vittoria del Pd in questo sciagurato (per i Dem) 4 marzo 2018, già ribattezzato come “l’anno zero” della sinistra italiana. E che vittoria. Zingaretti in un colpo solo ha sconfitto il centrodestra e il M5S sul loro stesso terreno, convincendo decine di migliaia di elettori salviniani, berlusconiani, meloniani e pentastellati ad abbandonare la routine della tripla ics e “correggere” il loro voto in presenza della scheda verde. Quasi 300.000 i consensi di differenza nel Lazio fra la coalizione del centrosinistra (compreso Liberi e Uguali) per il Parlamento e quella in appoggio al presidente uscente.
“Un vero miracolo politico”, ripetono increduli i suoi sostenitori, depressi e spaventati da un risultato nazionale disastroso. E così, ora per “Nicola il pavido”, “Nicola il calcolatore”, “Nicola il cattocomunista”, “Nicola il fratello di Montalbano”, l’uomo cresciuto da oltre 15 anni all’ombra dei big che via via si sono alternati – partorito dal “fabbricante di leader” qual è stato negli anni scorsi Goffredo Bettini – potrebbe essere arrivato il tempo di giocarsi le chance di fare il salto di qualità, concorrendo alla guida di quel che rimane nel Pd. E, chissà, alla presidenza del Consiglio, qualora la nuova legislatura non duri più di uno o due anni.
Quella di Zingaretti è stata la vittoria prima di tutto di un modello di governo, totalmente diverso dalla rottamazione divisiva targata Matteo Renzi. In antitesi, quasi. Uno schema nuovo ma, in realtà, molto vecchio. Pressoché incontrastato durante i suoi 9 anni fra governo della Provincia e della Regione, sia dalle opposizioni che dai principali media romani, il governatore è riuscito a riunire in una sorta di restaurazione dell’Ulivo le associazioni cattoliche e i centri sociali, le cooperative bianche e i movimenti per la casa, senza mai mettersi contro i sindacati, i comitati, gli ambientalisti.
Un “all-in” politico che si è manifestato palesemente durante le lunghe ore di attesa al Tempio di Adriano (sede della Confcommercio di Roma), dove si sono ritrovati, ad esempio, l’ex leader di Rifondazione, Franco Giordano, rappresentanti della Comunità di Sant’Egidio. Perfino i dalemiani di Liberi e Uguali, fuoriusciti in tutta Italia, hanno deciso di scendere in campo nella coalizione per giocarsi il derby con gli ex Sel confluiti nella Lista Civica che faceva capo a Massimiliano Smeriglio. “Unire, accogliere e armonizzare”, hanno ripetuto in questi anni i suoi. Il risultato è che alle regionali il Pd prende sì il 21%, ma poi si sommano il 4,4% degli ex Sel della Lista Civica, il 4% di Leu, il 2% dei centristi, il 2,5% dei Radicali e anche l’1% dei prodiani di Insieme.
E adesso? “Bisogna governare la Regione”, affermano con qualche sorriso sarcastico gli alleati. Ma non ci crede nessuno. “Il modello Lazio potrà servire da esempio per la partita nazionale”, ripete il vicegovernatore Smeriglio. Sarà Nicola Zingaretti in prima persona a rimettere a posto i cocci lasciati dal renzismo (e dall’anti-renzismo)? In tanti ne sono convinti. Dai primi rumors pare proprio ci sia la fila per entrare in Giunta: Marco Miccoli, Fabio Ciarla, Paolo Cento. Soprattutto, Goffredo Bettini, pronto a rientrare per tentare di nuovo la corsa a Palazzo Chigi attraverso un suo “figlioccio”, operazione in passato fallita con Francesco Rutelli e con Walter Veltroni. E poi c’e’ l’appoggio dei big e dei “mondi” romani, a cui – pur nella faida fra correnti degli ultimi 10 anni – non ha mai chiuso la porta in faccia: il premier uscente, Paolo Gentiloni, il padre nobile Veltroni, il suo antico riferimento, Massimo D’Alema, gli ex comunisti che 25 anni fa dividevano con lui l’esperienza al vertice dei Giovani del Pci, la Comunità Ebraica a cui è legatissimo e il mondo delle parrocchie.
E Nicola, che dice? Pur con il suo proverbiale politichese, il neo governatore rieletto parla già da possibile leader. Intanto definisce la sua “straordinaria rimonta” un “fatto democraticamente rilevante”. “Si può vincere anche in Italia, si può vincere bene”, dice durante il suo discorso alla platea che lo acclama, la stessa che poche ore prima aveva applaudito alle dimissioni di Renzi. “L’Italia è un Paese meraviglioso – dice – non dimentichiamocelo mai, anche nei momenti tristi. Io so che noi ci saremo in questa Repubblica, difendendo la Costituzione, forte delle nostre idee e dei nostri valori, combattendo orgogliosi. Questo è un voto infatti che segna che siamo vivi, che siamo vitali, che possiamo essere vittoriosi. E ovviamente io soprattutto da questo punto mi muoverò”. Poi parla del suo “modello”. “Inizia – dice – anche una nuova fase nella quale questa bella alleanza del fare deve dare il suo contributo culturale, valoriale, per ricostruire e rigenerare il centrosinistra. E’ il tempo della rigenerazione, che significa per tutti ricostruire un’anima, un progetto, una visione, una cultura politica, un’identità, all’insegna del rispetto delle differenze”. A sinistra, dunque, finita la stagione del renzismo si aprirà quella del “zingarettismo”? Sarà il congresso del Pd a dirlo.